Categoria: portare i bambini…fin da dentro il pancione!
“Portare” la famiglia verso nuovi equilibri
Ogni volta che nasce un bambino, la famiglia che lo accoglie si prepara a fargli posto. Un posto fisico nella casa, un posto magico negli affetti.
Strano come quel cosino piccolo piccolo sembri negli affetti così “ingombrante”. Tutto gira intorno a lui, tutti se ne prendono cura, tutti cedono un po’ del loro territorio del cuore.
E, paradossalmente, è proprio in questo scambio d’amore che si nasconde il dolore.
Il dolore di un fratellino che si trova a dover rinunciare alle proprie abitudini: giocare con la mamma diventa più difficile, così come lo diventa il farsi spazio tra le sue braccia adesso sempre “occupate”. Le piccole crisi a cui prima si rispondeva con dolcezza e pazienza sono adesso spesso bruscamente liquidate per via della stanchezza. Eppure quel piccolo è una grande gioia: tante cose da insegnargli presto e un compagno di giochi.
Il dolore di una mamma che si sente in colpa verso i bambini più grandi: ci sentiamo così poco accoglienti e serene, temiamo di non aver posto abbastanza tra le nostre braccia. Eppure si sente che l’amore non è diviso ma moltiplicato e sappiamo dentro di noi che di posto ce n’è e ce ne sarà sempre.
Il dolore di un quattrozampe per le sue passeggiate mancate, per ogni bastone non lanciato, per ogni carezza non passata sul muso. Eppure sente quel cucciolo anche un po’ suo, sente di doverlo proteggere e di voler aiutarlo a crescere.
É questione di tempo, poi tutto si normalizza.
Ed è questione di pazienza, di attenzione.
In tutto questo, parlare di fasce sembra una cosa marginale.
Eppure il portare serve a fare il tempo dell’equilibrio più vicino, più naturale.
Una fascia aiuta a “portare” la famiglia verso il nuovo equilibrio, nella nuova dimensione.Portare il neonato in fascia regala a lui tutto il contatto di cui ha bisogno. Un ambiente assai simile a quello uterino, la vicinanza e la rassicurazione dei genitori, il contenimento che lo fa sentire al sicuro.
Portare un fratellino o una sorellina maggiori offre loro l’opportunità di non usare parole per esprimere la loro inquietudine, offre un angolo magico di contatto esclusivo, silenzioso e nutriente come possono esserlo solo gli abbracci profondi.
E regala a chi lo porta mani libere e braccia grandi. Per accogliere chi ha bisogno di conferme, per accarezzare, portare a spasso, giocare.
Un bambino portato piange di meno, cerca il seno in modo più regolare, è felice ed appagato.
E rimane più tempo per uscire, per soppesare le emozioni, analizzarle, comprenderle, scambiarle gli uni gli altri, viverle in modo sereno.
Un papà che porta è un papà che ha l’occasione di definire fin da subito il proprio ruolo, di sperimentare la sua straordinaria competenza fin dai primi giorni di vita di suo figlio.
Una mamma che porta è una mamma che sa che il proprio istinto è la sua risorsa più preziosa e che tutto il suo immenso amore può passare dalle mani o dalla trama della stoffa.
Portare facilita e arricchisce, accorcia e rende più mite il cammino verso l’equilibrio e la reciproca conoscenza.
(Veronica)
Grazie a: Gessica Catalano per la foto, a tutte le colleghe della Scuola del Portare per le foto e le riflessioni.
Grazie a Chiara De Carolis e a Laura Paglini, educatrici cinofile e mamme portatrici (e Chiara anche collega consulente) per la condivisione delle loro esperienze.
Portare sulla schiena, il legame sottile
Anni ed anni appoggiandosi sullo sguardo come risorsa comunicativa assoluta.
Lo sguardo non mente, lo sguardo rivela. Lo sguardo appaga, lo sguardo carezza. Lo sguardo parla e sente.
La vista: la Regina indiscussa dei nostri sensi civilizzati. A lei si scrivono poesie, la si celebra con l’arte, la si erige a padrona assoluta del piacere accettato ed accettabile, del piacere da vivere, senza troppi veli, in condivisione.
“Guardare e non toccare”. La percezione che qualcosa di più ci potrebbe essere ma sapendo che è bene fermarsi lì.
C’è forse un ricordo lontano di un piacere bambino di impastare, di affondare le mani nell’acqua, di rotolarsi in un prato o nella sabbia tiepida, di scorrere le dita sul muretto del giardino: la superficie ruvida ed irregolare, la sensazione a mezzo tra la scoperta ed il fastidio.
Ricordo lontano e quasi sfumato.
E poi, d’improvviso, arriva il momento di afffidarsi al tatto: comunicare con un neonato vuol dire recuperare la competenza del tatto, del carezzare, del sentire, del tenere, dello stringere, dell’avvolgere, dell’abbracciare, del portare.
La competenza si risveglia piano, piano, all’inizio un po’ goffa poi sempre più sicura ma ancora indissolubilmente legata alla vista: lo sguardo attento osserva, verifica, legge i segnali, sostiene, dà certezze. Per chi ha deciso di portare il proprio bambino è un rincorrersi di progressi, un arricchimento costante della comunicazione, la capacità di leggere i segnali del piccolo in modo tempestivo ed appropriato. Ma il cucciolo è sempre lì, sotto lo sguardo innamorato dei suoi genitori.
Fino a che non arriva il tempo di portarlo sulla schiena. E tanti genitori si sentono un po’ mancare il terreno sotto i piedi: come rinunciare alla vista?
Eppure, passato il primo momento di smarrimento, chi inizia a portare dietro si innamora follemente e definitivamente del portare.
Perchè il portare svela il legame sottile eppure potentissimo che piano, piano si è instaurato. Una comunicazione profonda e infallibile, efficace ed autonoma che non ha più bisogno della vista.
Il portare, il contatto con quell’esserino dallo sguardo che va poco lontano e senza parole, ci liberano, giorno dopo giorno, dalle servitù sensoriali e ci restituiscono l’interezza della nostra sensibilità. E ci sentiamo forti e capaci. E pieni di risorse.
Ci sentiamo pronti a portare nel mondo il nostro piccolo e anche a lasciargli fare la sua strada, mostrandogliela in modo delicato da oltre le nostre spalle. Improvvisamente sappiamo che anche quando sarà lontano dai nostri occhi, quel legame speciale non perderà colore.
Nel mio lavoro, ogni volta che incontro una mamma in attesa o un genitore con il suo piccolo tra le braccia, mi soffermo a contemplare il prossimo futuro, il momento in cui il loro percorso li porterà ad essere certi che la pelle ed il suo linguaggio a volte bastano a se stessi. In quella fascia annodata intorno al pancione o che si intreccia uterina ad avvolgere il neonato c’è il potere di stringere legami, sottili e potenti come lo è quel linguaggio, come lo è l’essere umano al completo delle sue potenzialità.
Ed è, forse, la parte più affascinante del portare.
(Veronica)
Buon Anno Nuovo!

Che l’anno che sta finendo sia un bimbo portato sulla schiena: conoscenza profonda, sintonia, armonia, fiducia, esperienza.
Che possiamo amare il nostro passato in ogni scoperta e in ogni errore.
E che l’anno nuovo sia il nuovo bimbo più piccolo, portato davanti: un piccolo tesoro di scoperte, amore, tenerezza e cura.
Che possiamo crescerlo e crescerci alla luce delle scoperte fatte, delle cose imparate e stupirci delle splendide sorprese che ci farà.
buona vita piena d’amore e di felicità!
“Per crescere un bambino, ci vuole un’intera tribù” (detto africano)
Eccoci alle feste di Natale. Un calendario fittissimo di cenoni, visite, pranzi e chi più ne ha più ne metta.
Immaginiamoci Anna, nata da due settimane, ed i suoi genitori.
Nonostante la stanchezza dei primi periodi, le difficoltà ed i momenti critici sono tutti e tre molto felici. Anna è allattata al seno a richiesta. Una di quelle bimbe che stanno acquisendo competenza giorno dopo giorno, con tante poppate una dietro l’altra perchè si stancano un pochino prima di aver davvero riempito il pancino e perchè vicino a tutto quel morbido e a quell’odore così familiare ci si sta proprio bene.
La sua mamma la porta in una fascia che fa un bell’incrocio sul suo corpicino. A volte anche il suo papà se la “veste” in quel modo e lei se ne sta tranquilla. Ma davvero non le piace star sola (a chi piace?) e nemmeno è pronta per conoscere troppa gente e mamma e papà l’assecondano nei suoi bisogni, per loro molto chiari. Sembra tutto perfettamente in armonia.
Ma ecco che inizia il coro dei consigli e dei giudizi non richiesti. Paventano di tutto: dall’obesità al vizio, alla maggiore età ancora attaccata ai genitori.
Mamma e papà si stanno un po’ irritando e sentono davvero il bisogno di pensare ad altro, di continuare nella loro armonia.
Ma ad un certo punto accade qualcosa di bello: le nonne di Anna, sorridendo, allontanano parenti ed amici inopportuni. Con la vecchia zia sottobraccio le sentiamo parlare di continuum, di bisogni, di comportamenti naturali dei mammiferi, di tenerezza, di contatto.
I nonni di Anna stringono la mano al suo papà, congratulandosi dell’abbraccio in cui riesce a tenere calma la figlia e anche di quella fascia di cotone, all’apparenza così poco virile, che si è rivelata essere uno strumento straordinario.
La piccola zia di Anna chiede alla sua mamma di insegnarle a portare la sua bambola prediletta.
Una piccola tribù, unita.
Questa scena forse è una perfetta utopia per la maggior parte delle mamme che decidono di tirar su i propri figli in “contatto”.
Ma forse c’è la speranza che prima o poi quest’utopia diventi quotidiana realtà.
Prepariamoci.
Quando apprendiamo di aspettare un bambino, la Natura ci invita a concentrarci su noi stesse, sul nostro nucleo fondamentale e questo è bellissimo.
Ma se riusciamo ad investire un po’ del nostro tempo nel costruire la nostra tribù, poi sarà tutto più facile.
Ascoltarsi, informarsi, confrontarsi, scegliere grossomodo la linea che più si confa a noi stessi. Primo passo.
Non tutto andrà come previsto o immaginato ma se si ha un’idea anche non molto definita di che tipo di genitori vogliamo essere tutto sarà più facile.
Poi, scegliere la nostra tribù.
Avremo bisogno di sostegno, inutile pensare che non sarà così.
La nostra tribù è variopinta: ci saranno dei familiari, degli amici, degli operatori.
Di solito lo scoglio più grande sono i nonni. Questi nonni che remano contro, che perdono il senno per l’amore che li travolge, che guardano con diffidenza ai figli divenuti genitori, che “si permettono” azioni davvero deplorevoli in fatto di educazione e puericultura.
Nei social network e nei blogs si legge sempre più frequentemente la rabbia di mamme esauste di tanta mancanza di comprensione. Rabbia che spesso sfocia in espressioni molto forti, a volte violente.
Questo fa male. Fa male ai rapporti, alla serenità, ai bambini, agli adulti.
Cosa succede in una nonna che invoca il latte artificiale e la carrozzina, in un nonno che rende il ciuccio più allettante con una passata di zucchero o di miele?
Perchè non ascoltano, non rispettano, non sostengono?
Perchè non capiscono. Figli e genitori di un’impostazione forzatamente a basso contatto, han cresciuto figli ascoltando i consigli e le indicazioni degli “esperti” convinti di fare il meglio, convinti di non essere in grado da soli.
Ed ora?
Ora vedono questi genitori, questi loro figli che si curano le ferite cambiando rotta con le nuove generazioni.
Perchè ogni volta che un bimbo piange, piange anche il bimbo che è nascosto dentro alla mamma o al papà. Perchè ogni volta che lo consoliamo e ce ne prendiamo cura, accudiamo anche quel bambino nascosto nel fondo del nostro cuore.
Immagino la sensazione di destabilizzazione, forse anche i sensi di colpa, forse infine una punta di invidia e di gelosia, il rammarico per qualcosa di irrimediabilmente perduto.
Un bambino ancora più antico, ancora più nascosto, che adesso si fa sentire all’improvviso, in un pianto disperato a cui non si può resistere.
Azzittire, acquietare ed allo stesso tempo prendere possesso, recuperare. Dimostrare che “ci so fare” che “a modo mio non piange” che “vedi che pure tu come me non hai latte abbastanza”: in poche parole che il proprio operato di genitori non deve essere messo in crisi.
Un tormento inconscio spesso negato e che una neomamma non ha alcuna condizione di capire e di accogliere. Per la stanchezza, per gli ormoni, per la concentrazione in occuparsi del suo bimbo e della sua nuova se stessa. Per un milione di motivi.
Ma finchè i piccoli sono nella pancia si può fare. Si può scavare, dissotterrare, percorrere i sentieri più scuri ed impervi fino ad arrivare alla comprensione, fino a curare la ferita, a spezzare un anello prima, la catena di dolore che ci ha portati fin qui.
Si può affermare e comunicare che sappiamo che i nostri genitori hanno fatto del loro meglio, che li amiamo così e che ci sentiamo amati, che abbiamo bisogno adesso di sostegno per crescere e per cambiare rotta.
Si può informarli che esiste l’altra strada, quella che stiamo scegliendo, e che non sono invenzioni da figli dei fiori ma constatazioni scientifiche, biologiche e antropologiche. “Usiamo” tutti gli esperti del settore: ostetriche, doule, pediatri illuminati, consulenti di allattamento, consulenti del portare, insegnanti di massaggio infantile, e chiunque possa rappresentare l’autorevolezza della professionalità, per mostrare che la nostra intenzione non è mettere in crisi una relazione ma solamente migliorarsi.
Costruire passo, passo, storia per storia, i legami familiari veri.
Sono percorsi estremamente impegnativi e faticosi, costellati di ostacoli, discussioni, momenti duri e pesanti. Ma sono percorsi che ,se si ha la forza di finire, portano al risultato più atteso: la tribù.
Ed è così necessario costruire la propria tribù, avere un nucleo di persone a proteggerci, sostenerci, accompagnarci. Avere qualcuno di fiducia con cui condividere l’arrivo e la crescita del nostro bambino.
Perchè crescere un bambino “a contatto” prevede l’accudimento condiviso e non a caso.
Chi ci può aiutare:
Per imparare a comunicare in modo efficace e rispettoso: Ass. Comunicazione Empatica
Per scavare a fondo nella nostra storia: Il lavoro emotivo e corporeo di Willi Maurer e qualcosa sulle costellazioni familiari
Esperti sui benefici del portare i bimbi in fascia: Scuola del Portare
Esperti in allattamento e sui suoi benefici : IBCLC e La Leche Ligue
Pediatri: UPPA
Psicologi: Alessandra Bortolotti
Ostetriche: ostetriche libere professioniste (anche nel settore pubblico si trovano splendide professioniste ma purtroppo non esiste un link di riferimento)
Doule: ci sono diverse associazioni sul territorio nazionale. Non segnalo nessuna in particolare per mancanza di conoscenza diretta.
Libri sul tema: serie Il Bambino Naturale del Leone Verde
Portare i bambini…fin da dentro la pancia!
Da quando sono diventata consulente del portare con la Scuola del Portare, ho scoperto che con la fascia, si possono portare i bambini fin da dentro la pancia…e per me è stato un incredibile ampliamento di orizzonti.
Amo quando i cicli di consulenze cominciano dal pancione: il senso di continuità è totale, la componente emotiva altissima e serena. E quindi oggi voglio parlare proprio di questo, dei miei sentimenti sul portare il pancione.
Iniziamo da qualche dettaglio tecnico: il pancione lo si porta dall’ottavo mese di gravidanza e le possibili legature si scelgono in base all’epoca gestazionale esatta, al tipo di mamma, al tipo di pancia e…alla stagione! Tutte le legature sostengono il pancione non attraverso la compressione muscolare (come le terribili pancere!) ma attraverso la postura, per cui non vanno a sostituirsi ai muscoli addominali ma danno comunque molto sollievo.
Praticità
La mamma avvolge la fascia a se stessa, ne prova la sensazione piacevole di contatto, di carezza. Conosce il tessuto e la pressione leggera ma uniforme che la pelle ne riceve. Impara a lavorare i lembi, a drappeggiarli, tirarli, incrociarli, annodarli. Quando il suo bambino nascerà, la fascia non sarà più una sconosciuta e la competenza acquisita si trasformerà in maggiore sicurezza e disinvoltura nell’eseguire le legature per portare il suo piccolo.
Valore all’introspezione
Per l’intera gravidanza la mamma ha imparato ad ascoltare i cambiamenti del proprio corpo, a trovare nuove soluzioni di equilibrio, nuovi ritmi di riposo e di attività, nuove energie…a volte anche nuovi gusti alimentari! La legatura del pancione valorizza e agevola questa competenza, questa naturale consapevolezza: in ascolto di se stessa la mamma sente la sua pelle, i suoi muscoli, le sue ossa e sa già se ha bisogno di un sostegno deciso,di un sostegno più lieve, o solo di contenimento, di coccola. E così, parlando, si sceglie la legatura adatta.
Contenimento e preparazione al “passaggio”
Come farà con il neonato, la fascia fa con la mamma. Contiene ma non chiude, sostiene ma lascia crescere. Tante volte si è parlato e si parla delle caratteristiche uterine della fascia. E queste caratteristiche brillano anche nel legare il pancione.
Un utero esterno che contiene la mamma, il suo corpo in espansione, la sua emotività accesa, il suo prepararsi per dare alla luce. Come in una specie di complicità in attesa del “passaggio di consegne”. La mamma e la fascia si conoscono, prendono confidenza.
Dopo il parto la fascia accoglierà il neonato come un eso-utero. Intanto avvolge la pancia, ne prende l’odore. Si fa conoscere dalla mamma: la delicatezza e la morbidezza del tessuto che, giorno dopo giorno, cede un pochino di più, si adegua alle forme e contiene senza dare la sensazione di bloccare, come a comunicarle: “ecco, ti puoi fidare di me, il tuo bambino starà bene”.
La fascia è lo strumento migliore per offrire al neonato una gradualità tra la vita intra ed eso-uterina. Altrettanto, è lo strumento migliore per offrire la stessa gradualità di passaggio alla mamma. Soddisfa il bisogno di sostegno, di contenimento, di coccola del neonato e soddisfa gli stessi bisogni nella mamma che si prepara a far nascere. Diviene il “bozzolo” protettivo che presto vedrà volar via la farfalla più bella. La fascia non è una pancera, è ancora una volta qualcosa di emotivo, di estremamente in sintonia con l’evoluzione di chi vi si lascia avvolgere.
Quando diventiamo madri, fin dalle prime settimane di gravidanza, il mondo intorno perde i suoi confini soliti. Acquisisce inusuale importanza la simbologia, si fondono la realtà e l’immaginario emotivo, il nostro centro di attenzione primario si sposta dall’esterno all’interno per seguire i cambiamenti del corpo, i movimenti della nuova vita che cresce. Ci circondiamo di un bozzolo emotivo di sogni, di paure, di coraggio, di amore, di ascolto, di capacità di darsi totalmente e allo stesso tempo di rinchiudersi , di mettere confini al mondo esterno, di costruire un rifugio sicuro che sia un luogo fisico e un luogo dello spirito.
Come faccia un pezzo di stoffa colorato a sapere e a saper accompagnare tutto questo, è uno dei più bei misteri del portare.
(Grazie alla preziosissima collega Barbara Ronzani per il disegno e a Mamma Sara per la foto!)
Consulente del portare…ma che strano mestiere!
Oggi voglio scrivere un articolo apparentemente “commerciale”.
Sono una consulente del portare (e lo sono anche diverse delle esperte di “purocontatto”): ma che strano mestiere!
Oggi voglio proprio parlarne perchè ovunque leggo dubbi e domande.
“ma a cosa serve una consulente del portare?”
“E c’è bisogno di pagare un professionista con tanti video su Youtube?”
“cioè tu insegni ad usare i marsupi?”
“ma le donne africane portano da generazioni e non hanno bisogno di pagare nessuno, perchè dovremmo farlo noi?”
“ma come si può chiedere soldi per diffondere una cosa così bella e naturale?”
Insomma, a sentire in giro, dovrei cambiar mestiere! Perciò, in punta di piedi, oggi voglio proporvi un punto di vista diverso, il punto di vista di chi ha fatto una formazione specifica per diventare professionista in un ambito che ama tanto e di cui sente forte il valore profondo.
Andiamo con ordine, partendo da dove tutto comincia: il portare.
Portarsi i bambini addosso, ma perchè? Con tante opzioni che ci sono oggigiorno…roba da alternativi!
Certo che ci son 1000 modi per trasportare i bimbi! Ci sono oggetti, giocattoli, braccia e chi più ne ha più ne metta. Però portarli in fascia è comodo per entrambi: non ingombra, lascia le mani libere a chi porta, ai piccini offre una posizione comoda, fisiologica, piacevole sia fisicamente che emotivamente perchè li tiene vicini al nucleo del loro mondo: i suoi genitori.
Perché non usare i marsupi classici? perché non rispettano la fisiologia del neonato, lasciandolo “appeso” invece di assecondare la cifosi naturale della schiena che è la condizione migliore per lo sviluppo muscolare. Perché non rispettano neppure la fisiologia di chi porta scaricando totalmente su punti sensibili come il trapezio e offrendo una posizione sbilanciata rispetto al proprio baricentro. Perché “penzolano” e così facendo pesano assai.
Perché usare una fascia, allora? Perché è uno strumento estremamente adattabile, versatile, incredibilmente uterino (ricrea, se ben usato, un ambiente molto simile a quello che i neonati vivevano dentro il pancione consentendo una sorta di “accompagnamento” graduale e non traumatico verso il mondo esterno). Perché con la fascia si possono portare i bambini dalla nascita a tutti i primi anni di vita semplicemente cambiando legatura e posizione: insomma un investimento davvero duraturo, come pochi lo sono nel mondo dell’infanzia.
Perché scarica il peso del bimbo egregiamente ed in maniera equilibrata. Perché rispetta la fisiologia del neonato, lo rassicura, definisce i suoi confini. Perché tenendolo aderente al corpo del genitore, gli consente di “leggere” il di lui movimento agevolandone lo sviluppo psico-motorio e la coordinazione. Perché le fasce ben fatte hanno certificazioni internazionali sulla provenienza dei filati e dei colori che ne garantiscono la sostenibilità e la sicurezza per i bambini (che amandole moltissimo ci si strusciano, avvolgono, se le ciucciano a non finire).
Sì, va bene, bella la fascia, ma…e queste consulenti o istruttrici, a cosa diamine servono?
A riempire il “vuoto” di competenze in cui i genitori si trovano a nascere nelle nostre città. La destrutturazione della famiglia allargata; la predominanza del mercato di articoli per l’infanzia sul sapere tramandato di generazione in generazione; la continua offerta di nuovi oggetti, nuove soluzioni, nuove invenzioni; la predominanza di modelli di accudimento a “basso contatto” che spingono a procurare al neonato un’autonomia precoce attraverso la distanza fisica dai genitori: tutto questo provoca un vuoto in cui i neo genitori spesso si trovano a sguazzare, addirittura arrivando a dubitare delle proprie capacità e dei propri istinti. Una consulente del portare può riempire questo vuoto con le proprie competenze acquisite: sostiene i genitori nelle loro scelte, ne valorizza il sapere naturale, asseconda il loro istinto, legge i loro bisogni e quelli del loro bambino. E poi passa anche tecniche per legare le fasce portabebé in modo sicuro, pratico, ottimale.
Una consulente aiuta a scegliere il supporto migliore a seconda delle esigenze dei genitori e del bambino, insegna ad usarlo e ad usarlo nel modo migliore per la famiglia che ha davanti ed i suoi specifici bisogni.
Una consulente si sofferma sui dettagli che son quelli che, poi, fanno davvero la differenza.
Una consulente, infine, fa da ponte tra le famiglie che, se vogliono, possono così ricreare quella rete di legami, quell’essere comunità che tanto ci manca.
E, no, non parlatemi delle donne africane che non han bisogno di consulenti: sono donne che hanno un’eredità culturale e tecnica da noi irrecuperabile. Perchè portare si portava anche qui in Europa ma non c’è bisnonna che se lo ricordi ancora, ormai…
E non credo nemmeno che youtube possa essere una buona soluzione. Certo che si può imparare a portare da un video. A seconda di come si è, se si è portati o meno a quel tipo di comunicazione. Ma un video, certamente, non ascolta le esigenze di chi vuole imparare, non sa consigliare una legatura o l’altra a seconda di chi porta e del portato. Un video non si accerta dello strumento che chi impara sta usando né sa consigliare ad hoc un supporto “giusto” per la coppia portato-portatore, non sa superare le difficoltà di chi impara, trovare nuove soluzioni, rincuorare e rassicurare per evitare l’abbandono. In più, a voler essere puntigliosi (o forse solo attenti osservatori) , la jungla di video sul portare in cui ci si può addentrare è senza parametri di qualità per cui, se non si han già competenze in merito, si rischia di incappare in video terribili sia per tecnica che per approccio.
Infine, arriviamo al punto dolente. Una consulente si fa pagare. Intendiamoci, non son cifre esorbitanti, però una consulente richiede un compenso. Normalmente un compenso pari o addirittura inferiore ad un qualsiasi idraulico o meccanico, per non parlare di estetiste, parrucchieri e quant’altro. Con la differenza che gli interventi di quest’ultimi sono interventi a breve scadenza (quanto può durare una ceretta?) mentre una consulenza permette di portare bene il proprio bimbo per mesi, se non addirittura per anni. Ma pare faccia strano che qualcuno che si occupa di una cosa così “alternativa” voglia pure farsi pagare.
Mi piace il mio lavoro. Mi piace portare in primis. Credo profondamente nei benefici, nella comodità e nella magia del portare. Vorrei che tutte le mamme potessero provare le belle sensazioni che ho provato io portando i miei figli (specie da quando ho acquisito competenze specifiche: garantisco che la differenza è abissale!). Mi piace vedere le mamme e i papà che mi salutano contenti e soddisfatti di aver imparato, di essere bravi, di aver potuto cancellare pregiudizi, reticenze, perplessità. Adoro tutto questo.
Ma per arrivare a vivere questi momenti io e tutte quelle che fanno il mio mestiere (consulenti o istruttrici che siano), ci siamo preparate.
Il corso che ho frequentato per diventare consulente con la Scuola del Portare di Roma è un corso di 80 ore circa (arrotondando per difetto!) in cui si studiano le tecniche di legatura ma non solo. Si studiano l’origine del portare, la fisiologia, le potenzialità relazionali, le esigenze differenti, i vari supporti e le loro caratteristiche. Si accennano le basi della comunicazione non violenta per sostenere al meglio i genitori nelle loro scelte e nei loro bisogni. Per ottenere la certificazione è necessario, inoltre, un lavoro a casa di produzione e di ricerca piuttosto complesso. E facciamo tutto questo proprio perché per noi il portare è una cosa seria e preziosa; perché chi impara a portare bene porta in sicurezza, a lungo e con soddisfazione; perché i genitori meritano tutta l’attenzione e la competenza che possiamo offrire; perché i bambini sono il futuro ed il futuro va accolto nel migliore dei modi possibili; perché non è un compito da poco sostituire le tradizioni tramandate di madre in figlia.
Tutto questo richiede passione, dedicazione, tempo, preparazione, continui aggiornamenti. Bisogna mettersi in discussione, abbandonare il giudizio in favore dell’empatia, imparare ad anteporre il rispetto a tutto il resto. É un lavoro faticoso, delicato, complesso…seppur bellissimo!
Per questo ci facciamo pagare. Per questo vale la pena fare un corso. Per questo son contenta di fare questo strano mestiere.
il portare e le stagioni
Una delle perplessità più frequenti che incontro con il mio lavoro di consulente del portare è legata alle temperature. Troppo caldo in estate, troppo freddo in inverno.
Questo articolo sta bussando alla mia porta dall’inizio dell’estate ed è stata una lunga riflessione quella che alla fine gli ha dato via libera, oggi, per esprimersi.
Siamo abituati a riflettere sui nostri bambini, i nostri giudizi, le nostre classi di valori, le nostre esigenze.
E ci dimentichiamo che spesso, invece, le loro sono tanto diverse.
Non nego che d’estate faccia caldo, specie a chi porta. Ma prima di allarmarsi che i nostri bimbi “muoiano di caldo” forse dovremmo fermarci ed osservarli.
I neonati ci mandano segnali piuttosto chiari del loro stare.
Se i bambini sono tranquilli, dormono una quantità di tempo normale, respirano in modo regolare (e noi lo sentiamo addosso quel respiro dolce e tranquillizzante…perché tranquillizza, se glielo lasciamo fare), possiamo farcene una ragione: stanno bene.
Una mia carissima amica con un senso straordinario dell’umore, quando le ho espressa questa mia opinione, mi ha risposto “ma dai…e quindi mi dici che l’altro giorno lei dormiva e non era svenuta dal caldo come pensavo!”.
Magari possiamo far caso alle loro esigenze di idratarsi e quindi non trovar strano che chiedano il seno più spesso o offrir loro latte, acqua a oltre liquidi a seconda dell’età.
Oltre questa lettura dei segnali ci sono anche delle cose “tecniche” che ci dicono che forse la nostra percezione del caldo è esagerata.
I tessuti di fibra vegetale, se usati a contatto con la pelle, sono dissipatori di calore. Si sente spesso dire che lino e cotone “sono freschi” ed in questo c’è una grande verità. In più, se abbiamo l’accortezza di cercare il contatto pelle a pelle con i piccini, magari in estate portandoli con solo il pannolino (chi lo usa, ovviamente) e noi quanto più svestiti possibile (nei limiti del decente, ovviamente) innescherà quella meravigliosa ricerca dell’equilibrio termico che due corpi vivi fanno quando sono a contatto. In poche parole, suderemo nei punti strategici quel tanto che serve per raggiungere entrambi una temperatura ideale. Chi ha portato così, avrà notato che i bambini sudano più nei punti non coperti dalla fascia che dentro la fascia stessa.
Ed è per questo che le madri africane non hanno la percezione del caldo (che da quelle parti non deve essere di poco conto!).
Questa ricerca di reciproco equilibrio termico è tanto perfetta che gli INUIT (conosciuti con il più volgare e fastidioso nome di Eschimesi) portano i bimbi pelle a pelle sotto il pesante giaccone. Loro sanno che è il modo più efficace di garantire loro la temperatura migliore.
Non dobbiamo necessariamente fare lo stesso d’inverno (anche perché le nostre
temperature invernali non raggiungono certo quelle affrontate quotidianamente dagli INUIT) ma possiamo pensare che la fascia copre il nostro bambino con 1 e fino a 3 strati di
tessuto in più…e che per giunta c’è il calore del nostro corpo che è una specie di stufa a contatto con il nostro piccolo.
Il calore migliore, che sbaraglia qualsiasi piumino o tessuto “tecnico”!
Insomma, quando portiamo nostri piccini non facciamoci spaventare dalle nostre percezioni: osserviamoli, facciamoci “dire” da loro come stanno. E aggiustiamo eventualmente il tiro con calma.
Dai Paesi più freddi e più caldi del mondo ci arriva un solo messaggio: un bimbo accovacciato sulla sua mamma, sul suo papà o su chi lo porta, calmo, rilassato, soddisfatto, felice.
Ciò non toglie che abbiamo a nostra volta il “dovere” di rispettarci. Se ci fa troppo caldo (o troppo freddo) semplicemente prendiamone atto e comportiamoci di conseguenza. Ma con la consapevolezza che è una cosa che facciamo per NOI STESSI.
Questa coscienza e la serenità di dar valore alle nostre sensazioni rendono ogni decisione la migliore possibile.
Maternità e sindrome del derby

Non so se sia lo stesso anche altrove ma qui in Italia sembra che tutto sia condizionato da una sorta di inarrestabile sindrome del derby. O con me, o contro di me. Bianco o nero.
Sono ormai 4 anni che frequento mamme in consultori, corsi pre e post parto, ludoteche, gruppi sui social network e via dicendo.
Sembra che qualsiasi esperienza di maternità debba essere incanalata, rapportabile ad una sola scelta di maternage, ligia e perfetta secondo i canoni della strada prescelta.
O allatti per anni o sei contraria all’allattamento.
O ti tieni i figli nel letto a scapito pure del marito o pratichi Estevill.
O hai speso 1400€ in un trio all’avanguardia o altrettanti in fasce e marsupi ergonomici.
O sei “ad alto contatto” o sei “a basso contatto”.
E sembra così importante appartenere ad una squadra che per farlo le mamme si informano, si testano nel percorso, chiedono conferme e pareri, non si risparmiano attività di propaganda. Che siano dell’uno o dell’altro team. Per essere riconosciute e per potersi riconoscere in una delle due squadre, tante mamme e tante famiglie compiono scelte “dettate” da regole e opinioni altrui che non appartengono loro.
“Ma sarò abbastanza accogliente?”
“Ma sarò abbastanza severa?”
Ed è forse questa l’origine dell’infelicità così diffusa.
Qualsiasi scelta che facciamo per noi ed i nostri figli dovrebbe assomigliarci. Dovrebbe rispecchiare le nostre caratteristiche, dovrebbe rispettare i nostri bisogni fondamentali. In una parola, dovrebbe essere naturale. E non necessariamente nel senso più mammifero del termine: ogni mamma dovrebbe saper leggere, sì, i bisogni primari del proprio figlio, ma dovrebbe anche comportarsi secondo ciò che si sente di poter/dover fare insieme al proprio bambino.
Ed in questo dovrebbe essere comunque supportata. Perché qualsiasi mamma che farà una scelta non consapevole e non adeguata a se stessa come essere umano, e come donna in particolare, sarà una mamma affaticata e una donna infelice e manderà costantemente messaggi contrastanti ai propri figli.
Il primo e più importante contatto che bisogna curare è quello con noi stesse. Approfittare della maternità per chiarire definitivamente a noi stesse come siamo, chi siamo, ciò che vogliamo o possiamo fare.
Assumiamo un atteggiamento schietto e sincero, proviamo a sostituire il concetto di “sacrificio” con quello di “condivisione”. Mettiamo dei punti fermi laddove stanno i nostri valori irrinunciabili e degli obiettivi laddove sentiamo di dover crescere, migliorare, cambiare.
Ogni bambino è felice della sua mamma nel momento in cui percepisce che lei è davvero così come gli si presenta, che i suoi comportamenti sono armoniosi con la sua personalità, che lei lo ama e fa di tutto quanto in suo potere per trasmettergli questo amore.
Purocontatto vuole essere il luogo in cui si accolgono le mamme. In cui si trovano informazioni ma allo stesso tempo si da valore alle differenze e – soprattutto – alla consapevolezza delle proprie scelte.
Questo breve appello alla semplicità è scaturito grazie a due amiche. Sono due persone molto diverse tra loro e molto diverse da me. Ma abbiamo tutte e tre delle cose in comune.
La cosa più bella che, credo, condividiamo, è l’essere esattamente come siamo in ogni ruolo. Incluso quello di mamme.
Una di loro, quando le proposi di far parte dello staff di purocontatto, mi disse “Ma io non son sicura di essere una mamma da purocontatto: ho portato ma ho usato anche tanto il passeggino, ho allattato ma mi son pure stufata, e non ci penso nemmeno a dormire tutti insieme”.
In verità non esiste la mamma da purocontatto. O meglio, esiste: è ogni mamma che è o che vuole essere in contatto con se stessa prima di tutto. Ogni mamma che si rispetta, che rispetta i suoi limiti e valorizza i suoi pregi. Che rispetta i propri tempi e cerca il punto d’incontro con quelli del suo bambino. Quella mia amica è una delle mamme più “purocontatto” che io conosca.
L’altra amica mi chiama affettuosamente “l’extracomunitaria” quando mi vede con le mie fasce ed i miei figli attaccati al seno. Una volta mi disse “Sono proprio fortunati i tuoi bimbi ad avere una mamma così mamma come te”. Ed invece il suo meraviglioso, geniale, amatissimo bambino se ne uscì al tempo con un “Mamma sai, prima di nascere c’erano un sacco di mamme in fila davanti a me. Ed io ho scelto te”.
Un bambino fortunato, né più né meno dei miei.
Quello che siamo viene dalla storia della nostra società, dalla storia del nostro Paese, delle nostre città, della nostra famiglia. Dalla nostra storia.
Sia quel che sia, il “naturale”, il “fisiologico”, devono per forza confrontarsi con quello che noi siamo: è importante avere le giuste informazioni ed il giusto sostegno per poter lavorare su noi stesse. Chiarire innanzitutto come e dove possono arrivare le nostre forze, la nostra volontà, il nostro piacere. E poi, forse, riflettere su cosa abbiamo perso, cosa possiamo recuperare, cosa ci ha portato fin qui.
Roma, purtroppo, non è stata fatta in un giorno. Né in un giorno può essere cancellata.
Stiamo in contatto. Confrontiamoci a cuore aperto e senza sindrome del derby. C’è possibilità di crescere per tutte noi.
La strada tortuosa

Chi non ha mai visto un bambino sorridere felice davanti ad un regalo? La maglietta piena di brillantini, il camion pieno di luci, il bambolotto che fa cacca-pipì-chiamamamma e via dicendo, o anche solo un colorato lecca-lecca o del cioccolato o il gelato dopo un pranzo qualsiasi o…
I bambini adorano i regali. Anzi, se me lo consentite, le persone adorano i regali. Ed è facile, facilissimo, ricordarsi con benevolenza di chi ci fa un regalo o di chi ci abitua a riceverne molti.
Grandi o piccoli che siano, basta che siano qualcosa di speciale.
Per chi vuole attirare l’attenzione di un bambino o guadagnarsi (comprarsi?) un posto speciale nel suo cuore, la strada più facile è quella dei regali.
Il vero problema è che spesso ci si presenta come l’unica strada possibile: l’abitudine alle autostrade ci fa scordare le strade statali che si inerpicano sui monti, questo è normale. Comode e veloci sono da sempre preferite fino a sembrare le uniche opzioni. E non importa se alla fine dobbiamo pagare il pedaggio.
Così nella relazione con i piccoli.
Usciti a stento (o forse ancora nemmeno del tutto) dal periodo del distacco forzato, della non-relazione, dell’accudimento come risposta consumistica al bisogno, ci ritroviamo senza opzioni. Ci hanno abituato a “compensare” la distanza ammucchiando oggetti.
L’autostrada.
Solo che, in questo caso, il pedaggio non è solo il costo degli oggetti ma la perdita dell’opportunità di creare una relazione forte.
La strada tortuosa, di montagna, sconnessa e interminabile.
Perché la relazione è questo: è fatica, impegno e sudore. Mettersi in gioco, rivedere i nostri schemi, le nostre abitudini, le nostre categorie di giudizio è un procedimento che richiede molta energia, molta presenza.
Guadagnare (stavolta sì!) un posto speciale nel cuore di un bambino cercando i punti che ci uniscono a lui, accogliendo i suoi bisogni mentre insieme a lui li scopriamo, andare oltre la comunicazione verbale per cercarne una più efficace, rischiando tutto per affermare anche i propri irrinunciabili bisogni ma considerandoli “alla pari” con i suoi, è un lavoro lento, quotidiano, minuzioso, appassionato, stancante, costante, sfinente.
Ma il paesaggio traboccante d’amore e di comprensione che questa strada tortuosa ci offre non ha paragoni. Ed il pedaggio è solo il nostro impegno.
Questo articolo, sia ben chiaro, non ha l’intento di demonizzare i doni, anzi. Tutti amano i regali, come ho scritto. Questo articolo vuole essere più una specie di “suggerimento d’uso”. Proviamo a guardare gli oggetti oltre i loro colori. Proviamo a vederci il fine di cui noi stessi li stiamo caricando. E se è un bisogno d’amore, mettiamoli da parte per tirarli fuori quando, raggiunto il nostro obiettivo attraverso la relazione, potremo usarli come strumenti di celebrazione.
(grazie, Giorgia Cozza per il tuo “Bebé a Costo Zero“)
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La qualità dell’amore (sul portare i bambini)
Premessa: ho scritto quattro volte quest’articolo. Affrontare il lato simbolico di quel che quotidianamente facciamo è difficile e radicale. Ho cercato con tutta me stessa di non esprimere condanna e nemmeno critica ma solo di analizzare ciò che spesso viene dato per scontato, ciò da cui io per prima come donna e come mamma sono passata. Spero d’esserci riuscita.
Nelle società cosiddette “primitive” i bambini si portano addosso, o in braccio o con appositi supporti. Si portano prevalentemente sulla schiena, a volte sul fianco, mai davanti.
Il motivo pratico di queste scelte è abbastanza evidente: sono posizioni molto comode per lavorare o camminare o muoversi molto.
La base relazionale che le rende possibili invece è più nascosta e si basa sulla competenza genitoriale nel percepire ed interpretare correttamente i segnali fisici che il cucciolo manda al portatore. La comunicazione avviene in modo assolutamente efficace attraverso il contatto epidermico per cui non è assolutamente indispensabile né funzionale il contatto visivo.
Nel nostro mondo, invece, in cui questo tipo di competenza è andata giorno, giorno scomparendo rimpiazzata da un frequentissimo senso di inadeguatezza o insicurezza, il contatto visivo è fondamentale. Abbiamo bisogno di VEDERE che tutto va come deve andare, di GUARDARE il nostro piccolo per comunicargli la nostra presenza. Da noi, chi ha un bimbo molto piccolo, lo porta davanti.

Raccolto sul petto di chi lo porta, il bambino è dolcemente avvolto da una nicchia meravigliosa piena d’amore che tende a lasciare fuori il mondo, come un piccolo angolo incantato. Il nostro mondo adora la posizione frontale tanto da spingerla spesso oltre i limiti della fisiologia del portatore e del bambino.
Negli altri modi di portare, invece, il mondo intorno è sempre parte integrante del quotidiano del portatore e del portato. Non c’è essere umano senza il proprio contesto sociale e naturale e questo vale fin da piccoli piccoli.
Credo che questo già sia un elemento su cui poter riflettere molto. Le scuole del portare (e qui non posso non citare la “mia” scuola ovvero la Scuola del Portare di Roma di cui trovate il sito tra i links, il cui corso per consulente è all’origine di queste mie riflessioni) propongono al portatore occidentale un percorso di liberazione dai vincoli visivi, di riacquisizione delle competenze comunicative e di reciproca e graduale apertura verso il mondo: dalla posizione frontale cosiddetta “fronte-mamma” (anche se, ovviamente, non solo le mamme portano!) in cui il neonato guarda il genitore e viceversa in un piccolo, chiuso universo autosufficiente, si passa alla posizione sul fianco in cui portato e portatore guardano insieme il mondo in una sorta di condivisione protetta.
Non pensiamo che questa “protezione” sia solo a vantaggio del piccolo. Certamente il bambino portato sul fianco ha la possibilità di guardarsi intorno e di trovare rifugio, in caso veda qualcosa che lo turbi o spaventi, nascondendo il viso nell’incavo del braccio del portatore.
E si sa che i bambini, come i gatti, quando non vedono si sentono invisibili e quindi al sicuro.
Ma anche il portatore beneficia di questa condivisione: guarda il piccolo affacciarsi al mondo e si abitua poco a poco a distogliere lo sguardo da lui per tornare a rivolgerlo al mondo.
Infine si passa, finalmente, sulla schiena. La schiena è la posizione della “maturità” relazionale, in cui portatore e portato guardano insieme il mondo ma in modo indipendente e la loro risorsa comunicativa, oltre quella verbale, sono i messaggi che passano da pelle a pelle e che entrambi, a fine percorso sono finalmente in grado di gestire.
La posizione sulla schiena comunica indipendenza: il bambino può guardarsi intorno e arrivare ad angolazioni che l’adulto non può raggiungere. L’adulto, da parte sua, ha trovato il suo equilibrio: è presente come risorsa del bambino ma non lo intralcia nella sua personale scoperta del mondo.
In tutto questo percorso, come avrete notato, manca la posizione davanti cosiddetta “fronte-strada”.
A motivazione principale per cui non la si inserisce tra le posizioni adatte al portare è sicuramente quella fisiologica:la posizione fronte-strada, tranne rari e complicati casi di legature particolari, non rispetta la cifosi naturale del bambino e spinge la schiena ad assumere una posizione scorretta che la muscolatura in formazione del bambino non può sostenere. La motivazione psicologica segue a ruota: si espone il bambino al mondo senza risorse di protezione in caso incappi in qualcosa di sgradevole o di troppo “forte”.
Chi ricorre a questa posizione, invece, lo fa mosso dalla percezione della necessità del bambino di guardarsi intorno.
Non c’è certo da colpevolizzarsi: l’intenzione di assecondare le esigenze del bambino in evoluzione è lodevole e ci sono fior fiore di libretti di istruzioni, tutorial su internet, foto e filmati diffusissimi che la propongono come un’ottima soluzione.
E noi genitori ci sentiamo orgogliosi della curiosità e della voglia di indipendenza dei nostri figli.
E allora perché non pensiamo a metterceli sulle spalle? Eppure sappiamo che appollaiati sulla nostra schiena potrebbero egualmente soddisfare le loro velleità esploratrici.
Di questa domanda vorrei fare il nodo centrale di questo lungo articolo. Gran parte dei genitori dichiara di “aver paura” a portare il proprio figlio sulla schiena precocemente.
E questo avviene per quanto abbiamo analizzato precedentemente.
Ma la scelta del fronte-strada, simbolicamente, dice: sono orgoglioso che tu voglia guardare il mondo perchè è in linea con quello che la società chiede e pretende. Quindi assecondo la tua esigenza a priori, senza analizzare esattamente quali sono i tuoi bisogni magari inconsci (come potrebbe essere il non razionalizzabile bisogno di avere un luogo di rifugio) ma non mi stacco dalla mia necessità di tenerti sott’occhio.
Insomma, praticamente, un guinzaglio lungo: la centralità è il genitore con le sue esigenze, le sue paure, i suoi canoni.
La nostra società ci ha abituato a questo: ad una non-relazione tra genitore e figlio, tra “educatore ed educato”ma ad un rapporto diseguale in cui il genitore osserva il figlio e sceglie cosa il figlio deve affrontare e come.
Questo, certo, ci porta ad una reciproca immaturità relazionale: il genitore guarda il figlio e non ciò che il figlio scopre e come lo vive. Quindi difficilmente capirà il percorso che il figlio fa, le emozioni che vive, i tasselli che compongono la sua crescita.
Il figlio si sente staccato e quindi non supportato ma osservato e sotto pressione costante, sotto “giudizio” e senza possibilità di condivisione.
C’è un libro interessante, nonostante il titolo (italiano) di dubbio gusto e pertinenza “genitori efficaci” che parla di comunicazione.
La posizione davanti fronte-strada e le posizioni sul fianco e sulla schiena di chi porta sono la concretizzazione degli opposti sistemi comunicativi che vengono analizzati in questo libro ed hanno, a mio parere, le stesse conseguenze.
Scrivo queste cose non per bearmi di sofismi tecnico-psicologici sul portare e neppure perché penso che un bambino portato fronte-strada avrà inevitabilmente problemi relazionali con la sua famiglia. Bensì perché credo che sarebbe fondamentale per ognuno di noi (me stessa in primis) riflettere sui messaggi in codice che trasmettiamo, sulla potenza dei simboli e sulla qualità e maturità dell’amore che abbiamo e che coltiviamo ogni giorno.


