Portare sulla schiena, il legame sottile
Anni ed anni appoggiandosi sullo sguardo come risorsa comunicativa assoluta.
Lo sguardo non mente, lo sguardo rivela. Lo sguardo appaga, lo sguardo carezza. Lo sguardo parla e sente.
La vista: la Regina indiscussa dei nostri sensi civilizzati. A lei si scrivono poesie, la si celebra con l’arte, la si erige a padrona assoluta del piacere accettato ed accettabile, del piacere da vivere, senza troppi veli, in condivisione.
“Guardare e non toccare”. La percezione che qualcosa di più ci potrebbe essere ma sapendo che è bene fermarsi lì.
C’è forse un ricordo lontano di un piacere bambino di impastare, di affondare le mani nell’acqua, di rotolarsi in un prato o nella sabbia tiepida, di scorrere le dita sul muretto del giardino: la superficie ruvida ed irregolare, la sensazione a mezzo tra la scoperta ed il fastidio.
Ricordo lontano e quasi sfumato.
E poi, d’improvviso, arriva il momento di afffidarsi al tatto: comunicare con un neonato vuol dire recuperare la competenza del tatto, del carezzare, del sentire, del tenere, dello stringere, dell’avvolgere, dell’abbracciare, del portare.
La competenza si risveglia piano, piano, all’inizio un po’ goffa poi sempre più sicura ma ancora indissolubilmente legata alla vista: lo sguardo attento osserva, verifica, legge i segnali, sostiene, dà certezze. Per chi ha deciso di portare il proprio bambino è un rincorrersi di progressi, un arricchimento costante della comunicazione, la capacità di leggere i segnali del piccolo in modo tempestivo ed appropriato. Ma il cucciolo è sempre lì, sotto lo sguardo innamorato dei suoi genitori.
Fino a che non arriva il tempo di portarlo sulla schiena. E tanti genitori si sentono un po’ mancare il terreno sotto i piedi: come rinunciare alla vista?
Eppure, passato il primo momento di smarrimento, chi inizia a portare dietro si innamora follemente e definitivamente del portare.
Perchè il portare svela il legame sottile eppure potentissimo che piano, piano si è instaurato. Una comunicazione profonda e infallibile, efficace ed autonoma che non ha più bisogno della vista.
Il portare, il contatto con quell’esserino dallo sguardo che va poco lontano e senza parole, ci liberano, giorno dopo giorno, dalle servitù sensoriali e ci restituiscono l’interezza della nostra sensibilità. E ci sentiamo forti e capaci. E pieni di risorse.
Ci sentiamo pronti a portare nel mondo il nostro piccolo e anche a lasciargli fare la sua strada, mostrandogliela in modo delicato da oltre le nostre spalle. Improvvisamente sappiamo che anche quando sarà lontano dai nostri occhi, quel legame speciale non perderà colore.
Nel mio lavoro, ogni volta che incontro una mamma in attesa o un genitore con il suo piccolo tra le braccia, mi soffermo a contemplare il prossimo futuro, il momento in cui il loro percorso li porterà ad essere certi che la pelle ed il suo linguaggio a volte bastano a se stessi. In quella fascia annodata intorno al pancione o che si intreccia uterina ad avvolgere il neonato c’è il potere di stringere legami, sottili e potenti come lo è quel linguaggio, come lo è l’essere umano al completo delle sue potenzialità.
Ed è, forse, la parte più affascinante del portare.
(Veronica)
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