Categoria: educazione e pedagogia
Stiamo davvero imparando la lezione?
Siamo ormai sicuri che l’anno scolastico in corso, sospeso a causa dell’attuale epidemia, non terminerà dentro le aule. Tutto rimandato a Settembre, dunque. Il rebus che coltiva la preoccupazione dei genitori è costituito dal prevedere fin da ora come la scuola ricomincerà. Una commissione di esperti è infatti a lavoro per formulare le prime ipotesi a riguardo. Se per la ministra dell’istruzione Azzolina si potrà stare di nuovo dietro ai banchi solo in totale sicurezza e sulla base delle dichiarazioni del ministro della salute Speranza, la prossima fase 2 del contagio dovrà realizzarsi con estrema gradualità, risulta difficile immaginare il rientro in blocco di otto milioni di studenti dopo l’estate. Come risulta difficile pensare che, data l’età media degli insegnanti italiani, (la più alta in Europa secondo un’indagine OCSE del 2019) si possa chiedere di tornare in classe ai docenti più anziani, poiché rappresentano la fascia di popolazione più vulnerabile al virus e verso la quale va mantenuta la tutela sanitaria. È stato detto (sempre dal ministro Speranza) che il distanziamento sociale continuerà ad essere il caposaldo di qualunque strategia di salvaguardia della salute pubblica e la scuola, per il contesto particolare che rappresenta, si adegua molto male a questa strategia.
Gli spazi a disposizione e il numero di bambini per classe, soprattutto nei cicli infanzia e primaria, sono condizioni che non aiutano affatto, a meno che non si programmino vere e proprie turnazioni di studenti, riducendo la possibilità di assembramenti anche in fase di ingresso e uscita dalle scuole. Certo è che l’adozione di particolari protocolli sanitari, a scuola, potrebbe non evitare la psicosi da paura di contagio, considerata l’imprevedibilità dei comportamenti dei bambini che, anche se opportunamente sollecitati, potrebbero far fatica a indossare a lungo le mascherine e a mantenere costantemente la distanza di un metro.
In questo scenario complesso, la didattica a distanza (DaD), quella forma di didattica attraverso cui si stanno portando avanti le lezioni e con cui le famiglie si sono, loro malgrado, confrontate quotidianamente, potrebbe non essere dimenticata in soffitta e continuare ad essere ancora modalità ausiliaria per gli apprendimenti didattici.
Dalla conferenza stampa dello scorso 6 Aprile, tra l’altro, è chiaro come la didattica a distanza non vada più considerata “uno strumento opzionale”.
Siamo passati dunque da un esperimento consigliato, a vero e proprio paradigma riconosciuto e ‘strutturale’ del sistema educativo, almeno temporaneamente per questa emergenza e, aggiungerei, fino a quando ce ne sarà bisogno. Non vi era senza dubbio una strada alternativa, anche se si è constatato quanto la DaD si sia realizzata in modo estremamente stratificato e diversificato nelle scuole italiane e spesso all’interno della stessa classe. Sono emersi in modo evidente e diffuso problemi legati alle differenze economiche, strumentali, linguistiche e anche alla scolarizzazione delle famiglie (che richiederebbero una trattazione a parte e dedicata).
Inoltre, ci sono stati docenti in grado di organizzarsi fin dalle prime settimane dal lockdown, avviando rapidamente un programma di videolezioni, c’è stato chi ha iniziato con le attività sincrone molto più tardi, anche un mese dopo la chiusura, chi invece, già abituato a fare lezioni in streaming (come ad esempio nel caso del regime della scuola-ospedale per gli alunni che non possono essere frequentanti a causa di problemi di salute) ha realizzato le proprie lezioni digitali senza particolari criticità.
C’è stato, inoltre, chi si è rifiutato di lavorare on line, inappellabilmente, perché non si sentiva in grado di gestire la propria didattica con gli strumenti digitali (ad esempio, sul sito di un istituto comprensivo di Roma, la dirigente ha spiegato ai genitori come la maggioranza dei docenti si fosse espressa contrariamente alla DaD). E ancora c’è stato chi per scelta etica ha deciso di non implementare la Dad, perché avrebbe dato luogo, viste le possibilità economiche delle famiglie della propria classe, ad una scuola discriminante e non inclusiva.
Motivi per i quali solo col tempo processeremo e comprenderemo sul serio se si è riusciti a dare un senso ad un anno scolastico così compromesso a causa della pandemia da Covid-19.
Ma facendo un passo indietro, cosa si intende precisamente con la DaD?
Di nota in nota, abbiamo dati sufficienti per affermare come la concepisce il Miur. Per il ministero dell’Istruzione consiste senz’altro non in una “mera trasmissione di materiali” o compiti, ma in un panel di modalità (videoconferenze, video lezioni o utilizzo di app interattive educative) che contempli “azioni didattiche” equiparabili alla didattica tradizionale. Vuol dire che le lezioni non possono consistere solo in compiti a casa, assegnati senza aver svolto, prima o dopo, una lezione vera e propria. Questa lezione dovrà chiaramente conoscere modalità comunicative diverse rispetto alla lezione in presenza, privilegiando il dialogo, la problematizzazione e le domande degli studenti. Durante questa quarantena la qualità del lavoro dei docenti si è vista indiscutibilmente, dalla primaria alla secondaria di II grado lungo tutto lo stivale, con una grande prova di resilienza e di determinazione da parte di maestri, professoresse, dirigenti e personale scolastico (eclissando spesso le rivendicazioni dei sindacati).
Credo che quando non sia stato possibile trovare un metodo collaudato di scuola on line (non era banale realizzarlo così su due piedi), ciò che ha fatto la differenza, in senso positivo, è stata la misura con cui via via i docenti hanno cercato di equilibrare in modo ragionato videolezioni, compiti a casa e scadenze.
Ciò che invece oggi lascia davvero sconcertati è prendere atto di come la scuola e soprattutto i bambini siano stati esclusi dal dibattito pubblico in questi mesi.
La scuola sembra aver rappresentato un’appendice, un fronzolo, una parentesi opaca ammessa una tantum in conferenza stampa o in qualche riga di decreto. Nessun approfondimento mediatico, pochissime informazioni sono state sviluppate e offerte all’opinione pubblica con spunti di riflessione critica. Sul web invece tante sono state le lettere dei genitori che evidenziavano il bisogno di ascolto e di comprensione.
L’aspetto psicologico, umano e sociale delle famiglie e dei bambini non ha mai costituito un argomento di analisi e confronto istituzionale più o meno formale, soccombendo al tema della ripresa economica, della responsabilità politica sulla gestione dell’emergenza e ovviamente del contenimento del contagio. Il focus narrativo prevalente ha riguardato solo in minima parte i cittadini, e ciò è avvenuto soprattutto in quanto lavoratori, e quindi soggetti economici.
Eppure, a mio parere, questo ‘focolare privato’ diventato ‘pubblico’, mantenendo fede con forza ad un impegno collettivo, avrebbe meritato più attenzione e sensibilità. Doveva essere valorizzato.
Eppure i bambini insieme alle loro famiglie in una trama di vita così complessa, avrebbero dovuto trovare l’opportunità di ricostruire il loro ‘spazio’ e il loro legame col tempo.
Eppure i bambini, sono soggetti di diritto tanto quanto gli adulti.
Lo sa bene la prima ministra norvegese Erna Solberg che già a metà Marzo tenne una conferenza stampa solo per i più piccoli, rispondendo per mezz’ora alle domande provenienti dai bambini di tutto il Paese. Una grande lezione di stile e di democrazia, rimasta tristemente isolata.
Secondo il filosofo Ernst Cassirer l’uomo è un ‘animale simbolico-culturale’ per cui produrre e fruire di segni e significati è azione radicata nella condizione specie-specifica dell’uomo.
La narrazione aiuta, dunque, sotto questo profilo, a elaborare la propria esperienza intima in un’ottica di ri-significazione, di sguardo più ampio e di patrimonio comune, quando la si correla a quella degli altri. E allora da questo punto di vista così importante e imprenscindibile, alla luce di questo time-out epocale come quello che stiamo vivendo, tutti insieme e tutti nella stessa barca, la lezione ancora non l’abbiamo certamente imparata.
Piccole storie ossitociniche: la cura e i colori
La Cura, i Colori
Vedo rosa in più sfumature, di pelle e di stoffa;
Vedo nero, bianco, marrone scuro, marrone chiaro;
Vedo il grigio della strada e molto amore;
Vedo qualcuno che per prendersi cura di chi ama non usa solo le braccia ma anche la schiena ed i piedi con cui cammina;
La cura ed i colori non si fanno domande. Semplicemente si accompagnano, si cullano, si fondono in un’unico passo in avanti.
Oltre chi resta indietro a guardare le tonalità di pelle e si perde una giornata di sole;
Oltre chi resta indietro a chiedersi come mai, se sarà adottato, se sarà figlio di stranieri;
Oltre chi resta indietro a giudicare la quantità di amore dello stare vicini, che pare sempre si rischi di amare troppo;
Oltre chi resta indietro ad argomentare che un genitore presente e amorevole non faccia la differenza;
Oltre chi resta indietro a dividere le culture, quando siamo tutti nati per imparare;
Oltre chi resta indietro a pensare che educare i bambini sia qualcosa di tanto diverso dall’amarli indiscriminatamente.
Un’unico passo in avanti, e poi un altro.
Lasciali indietro, piccola creatura, che il mondo non vede l’ora di cambiare con te.
(Veronica)
Ringraziamenti: Grazie alla piccola O. per la speranza di un mondo migliore. Grazie a mamma e babbo per aver curato un amore così grande con il loro grande amore. E Grazie per questo scatto che mi avete regalato ❤
Venite e…portate anche i nonni!
É la mia frase tipica quando invito i futuri o i neo-genitori agli incontri informativi sul babywearing o sul massaggio infantile.
Normalmente assisto a sogghigni o ad espressioni sconsolate. Qualche volta addirittura ad evidenti segnali di fastidio. E le motivazioni sono sempre le stesse:
“Eh sie…tanto hanno poco da criticare!”
“Figurati, loro sono proprio all’opposto di queste cose!”
Eccetera, eccetera…
È successo anche qualche tempo fa, durante un incontro. Allora, mi concessi un pochino di tempo per esporre le ragioni del mio invito e da allora, alcune tra quelle mamme continuano a chiedermi di scrivere le cose che dissi, perché possono servire.
Ed ecco qua, con la mia solita calma, a dar loro ascolto.
Chi sono i nonni di oggi?
In buona parte, sono genitori di ieri, forzati da pregiudizi culturali ed indicazioni mediche dettate da opinioni soggettive a crescere i propri figli con il criterio dell’indipendenza precoce.
I bambini nati e cresciuti negli anni ’80 e ’90 – i genitori di oggi – sono bambini poco allattati al seno, poco tenuti in braccio, mantenuti distanti nel sonno (spesso con i metodi dell’estinzione graduale del pianto, oggi ufficialmente ritrattati), massaggiati poco e raramente.
I loro genitori li hanno cresciuti così convinti di fare il loro bene. A volte in modo per loro naturale, perpetrando modelli pedagogici e di accudimento di tradizione familiare, a volte rinunciando con dolore, per ciò che credevano essere il benessere e la crescita equilibrata dei figli, al loro istinto, alla voglia di star loro vicino, di tenerli vicini.
E gli anni son passati, ed i figli si son fatti grandi, onesti, capaci di andare con le proprie gambe: hanno fatto un buon lavoro, come genitori, va tutto bene.
Finché i figli non diventano genitori.
E magari genitori che scelgono di tirar su i figli “a contatto”, come Natura comanda.
Ed è a queso punto che si crea spesso una voragine tra le generazioni e, peggio ancora, tra gli affetti.
Perché i genitori, per intraprendere il percorso che hanno scelto, si sono informati tanto e tanto faticano ad attuarlo perché tutti sappiamo quanto sia difficile dare ciò che non si è avuto, che non si è mai conosciuto.
Ed in questa fatica, si aspettano il sostegno dei familiari.
Sostegno che, invece, viene soffocato dalle critiche.
D’altra parte, loro, i nonni si trovano improvvisamente davanti a posizioni, informazioni, dati scientifici che comunicano loro soltanto qualcosa di terribilmente doloroso: hai perso un’occasione.
Uscite dalle labbra dei figli, queste nuove informazioni arrivano con un carico – spesso nemmeno voluto – di sensi di colpa, di giudizi. Diventano: con me hai sbagliato, mi hai fatto mancare cose importanti.
Con questi fardelli emotivi la deriva della relazione è quasi una conseguenza naturale.
Però ci sono situazioni in cui le stesse informazioni pesano meno.
E sono gli incontri tenuti da operatori.
L’operatore è qualcuno di estraneo alla famiglia, che non ne conosce la storia e che quindi pesa emotivamente meno di un figlio che quella relazione ha vissuto da protagonista.
Un buon operatore sa che parla per informare e non per giudicare.
Un buon operatore sa “annusare” la tensione emotiva in sala e sa offrire una via d’uscita alla malinconia, al dolore di non aver accudito i propri figli. Sono vie d’uscita piccole ma esistono. Accudire la madre, far da madre alla madre, come dicono le doule. Si può fare, si può imparare. Si può sciogliersi d’amore a qualsiasi età.
Partite per tempo, coinvolgete i nonni nelle scelte di accudimento e nelle scelte pedagogiche, fate filtrare l’emozione attraverso le parole più distanti di qualcuno che è lì proprio per informare, sostenere, incoraggiare, offrire vie d’uscita. E poi, chissà, magari potrete provare a ricostruire quello che è rimasto incompleto.
In ogni caso, ne guadagnerete tutti in benessere, armonia, amore, possibilità di recupero.
Attaccamento morboso
Spesso si sente definire l’attaccamento tra genitori e figli (e più ancora quello tra le mamme e i loro figli) “morboso”.
Considerando la possibilità che ci siano relazioni non sane, vorrei soffermarmi sul significato della parola e sulla norma biologica dell’essere umano.
Il mammifero uomo è un prematuro fisiologico. Questo significa che, anche nascendo a termine, un cucciolo d’uomo ha bisogno di un certo tempo perché le sue funzioni neurologiche e fisiologiche si stabilizzino.
Nei primi 1000 giorni di vita il cervello di un essere umano cresce circa 1gr al giorno. Il contatto positivo, le sensazioni piacevoli favoriscono il crearsi dei collegamenti sinaptici.
Un cucciolo d’uomo nasce con tante competenze ma tante deve crearsele. In primis deve acquisire le capacità di muoversi in modo autonomo per il mondo, deve stabilizzare il proprio sonno, deve preparare il proprio sistema digerente ed intestinale per i cibi solidi e così via.
Oggi OMS ci dice che l’allattamento al seno, quando possibile, è da preferire a qualsiasi altro alimento sul piano nutritivo ma SOPRATTUTTO sul piano relazionale è da protrarsi finché la diade ne sente il bisogno, anche oltre i due anni, perché oltre a portare benefici al corpo, crea una relazione solida e una comunicazione efficace.
Lo stesso si dica delle coccole, degli abbracci, dei massaggi, delle carezze e dei baci: l’essere umano ha bisogno di stimolazioni sensoriali e affettive per crescere sano e sicuro.
Quindi le relazioni affettuose – anche e soprattutto fisiche – tra genitori e figli sono sane, non malate. Oltre stimolare la crescita sana a livello muscolare, neurologico e relazionale dei bambini, insegnano loro a riconoscere il tocco buono, rispettoso, amorevole di chi li ama e a distinguerlo, appunto, dalla morbosità reale. A loro volta, imparano ad amare e a rapportarsi fisicamente agli altri in modo rispettoso e amorevole.
Quindi non confondiamo le cose e lasciamo la patologia ai campi in cui effettivamente ci sono delle disfunzioni relazionali grosse (che invece, specie nel mondo adulto, oggigiorno sembrano essere la norma). La prossima volta che incontrerete un genitore che sta accudendo suo figlio, sorridete loro. Anche se per la vostra visione quel bambino fosse “troppo grande” per essere portato addosso, allattato, massaggiato.
Riserviamo la nostra capacità di dissenso per le reali morbosità: forse nella nostra società ci saranno meno violenze.
morbóso agg. [dal lat. morbosus]. – 1. Nel linguaggio medico, che è proprio di un morbo, o che ad esso si riferisce, o, più genericam., che ha significato patologico: stato m.; condizioni m.; sintomi m.; sintomatologia m.; anche, che apporta un morbo, una malattia: causa m.; agenti morbosi. 2. In senso fig., di sentimento, che, nel suo manifestarsi, denota eccessività rispetto alla norma, e quindi mancanza di misura e di equilibrio; per estens., opprimente, ossessivo
Invece, queste, sono immagini d’amore sano, sanissimo, prezioso.
Non confondiamo le cose.
(Veronica)
Il lato scuro (o meglio, rosso) dell’allattamento
“Mi sento solo una poppa!”
É una frase che si sente spessissimo dalle mamme, specie le mamme al primo bambino o al primo allattamento, e ancor di più dalle mamme che allattano oltre l’anno di vita del bambino.
É un sentimento complesso, a volte quasi doloroso, quasi sempre almeno fastidioso.
Un bambino grande che, in presenza della madre, richiede il seno ancora come risposta unica alle difficoltà mentre in sua assenza mostra risorse alternative, ci mette in crisi.
La sensazione è quella di essere “ridotte”, a livello relazionale, al solo seno.
Da tanto tempo mi chiedo se non ci sia la possibilità di comprendere a fondo il punto di vista dei bambini e contemporaneamente quello delle madri, con la sensazione che alla base del malessere di quest’ultimo ci sia di fatto un grande equivoco interpretativo.
Occupandomi di pelle, in ogni sua espressione, ho trovato quella che, almeno per me, può essere una buona lettura della questione. E spero che lo sia anche per altre madri o, per lo meno, possa essere spunto di riflessione per aiutare ciascuna a venire a capo della propria storia.
Premetto che non voglio assolutamente pormi in modo giudicante nei confronti di scelte, emozioni o percorsi individuali ma appena chiarire quelle che possano essere le origini di questo divario emotivo che spesso si crea tra madre e figlio.
Ripercorrendo i passi dell’educazione media di una bambina nella nostra società mi soffermo a pensare che fin da piccole siamo spinte a valutare in modo molto disuguale l’amore come sentimento, come affinità elettiva, come relazione emotivo-intellettuale da una parte e l’amore fisico come relazione dei corpi, come scambio di pelle dall’altra.
Le frasi e le espressioni che più spesso ritornano nella vita di una donna sotto forma di ammonimento, di indicazione e di educazione amorosa sono grossomodo sempre le stesse da generazioni:
“Stai attenta, gli uomini vogliono solo quello”
“Il sesso senza amore non vale nulla”
“Cerca un uomo che ami più il tuo cervello delle tue curve, mia cara”
“Cerca il vero amore che il sesso finisce”
“Quando deciderai di fare sesso, che sia l’uomo giusto, un uomo che ami davvero”.
La relazione fisica é sempre subordinata alla relazione sentimentale, intellettuale, come se fare l’amore, scambiarsi la pelle, comunicare attraverso il corpo e la sua capacità di dare e ricevere calore e piacere, siano soltanto il necessario completamento di una relazione che trova il proprio valore nella parte intellettuale.
Stilnovo? Estremismo cattolico? Femminismo mal interpretato? Da dove venga tutto questo denigrare la relazione fisica non sono in grado di dirlo.
Ma quando i nostri bambini iniziano ad esprimersi, camminare, gesticolare o addirittura parlare, quello che spesso ci aspetteremmo in fondo al cuore é l’inizio della sublimazione della relazione, ci aspetteremmo che si stacchi dal corpo per elevarsi a livello dell’intelletto, della comunicazione verbale e semi verbale, del gioco delle risorse.
I bambini no. Stanno attaccati con le unghie e con i denti alla relazione tattile, allo scambio di pelle, a quella potente tattilità in grado di calmare, coccolare, sostenere, acquietare, consolare. Il corpo é al centro del loro modo di amare, al centro dell’intesa faticosamente costruita con la persona che è il pernio su cui gira il loro mondo. Un amore fisico, fisicissimo. Il corpo al centro.
É possibile che qualcuno si sentirà offeso per un parallelo così fuori luogo tra l’amore romantico e l’amore genitoriale e filiale. Ma credo sia interessante collegare ogni momento della nostra vita senza assurde barriere di pensiero. Tanto più che chiunque abbia allattato in pubblico ha ricevuto almeno una volta un commento o un’occhiata di condanna che dimostra come gli ambiti di accudimento e sessualità non siano affatto socialmente distinti.
Altrettanto, è ovvio che a creare insofferenza si prodigano anche altri fattori come la stanchezza, il giudizio sociale o il bisogno di tornare ad essere solo se stesse, senza una qualche appendice già, all’uopo, deambulante. Ma ci sono varie espressioni di insofferenza. Ciascuna corrispondente ad una diversa origine prevalente.
Laddove, però, si manifesta un tipo di delusione relazionale (che di solito si esprime con la frase con cui abbiamo iniziato o simili), possiamo provare a riflettere su quanto ci ferisca essere per i nostri figli “soltanto un corpo/un seno”. E perché ci ferisca così tanto. Perché ci aspettiamo che dei piccoli mammiferi, che si sforzano tanto di comunicare con “gli altri”, si sforzino altrettanto per farlo anche con noi, ignorando la bellezza e la preziosità del nostro canale privilegiato, tattile, di comunicazione. Se qualcuno per spostarsi velocemente si impegna, in mancanza di meglio, a pedalare in salita su una vecchia bici, avrebbe senso aspettarsi o pretendere che lo faccia anche quando arriva chi di solito gli offre un passaggio in limousine?
E perché lo pretendiamo o ci aspettiamo una cosa così poco sensata? É verosimile che questa pretesa/aspettativa si fondi sul considerare la relazione intellettuale più aurea di quella fisica? É verosimile che anni e generazioni di donne cresciute senza corpo o come se il proprio corpo fosse un accessorio necessario ancorché fastidiosamente pesante, ci rendano impazienti – riguardo i grandi amori della nostra vita – di abbandonare il linguaggio della pelle per passare alla loro zona di confort relazionale che è la sfera dell’intelletto?
Perché se questo è, come credo, verosimile, ancora una volta i nostri bambini ci concedono una grande opportunità: quella di rivalutare la bellezza della relazione fisica in ogni suo aspetto, in ogni sua sfaccettatura. Aggrappate alla nostra costellazione molecolare ossitocinica, abbiamo la possibilità di rinascere più complete sotto il tocco delle mani e delle labbra dei nostri figli e delle nostre figlie, appassionati dell’amore più grande, più totale e più cristallino che mai potremmo vivere e di cui potremmo essere amate.
(Veronica)
Un grazie speciale va a Paola Mazzinghi, consulente IBCLC, per starmi vicina con la sua presenza dolce e professionale, in ogni riflessione sull’allattamento e dando il supporto a tutti i genitori a cui ho il piacere di consigliare la sua consulenza
Piccole storie ossitociniche. Una mamma, un papà, una bimba.
Una coppia che si ama, con tra le braccia il loro desiderato primo figlio, nato meno di due mesi fa, la riconosci bene.
Hanno gli occhi sbarrati, un po’ cerchiati, straboccanti d’amore e di incertezza. Traspirano una lieve insicurezza costruita intorno a loro dalle aspettative sociali, dai giudizi e dai consigli non richiesti. E una grande, una grande dolcezza, un prendersi cura sottile e costante, inossidabile.
Cerco di entrare in punta di piedi, di parlare piano. Di comunicare loro in qualche modo che possono essere quello che vogliono, quello che sono. Che un pianto non richiede per forza un’analisi o un giudizio e che le incessanti richieste da parte di quel minuscolo essere umano sono naturali, normali, belle e potenti perché ne garantiscono la sopravvivenza e la crescita sana e felice. Come si comunicano tutte queste cose? Servono tanti spazi di silenzio, dove gli animi si incontrano e fanno da soli, senza tanti fronzoli, la loro conoscenza.
Eccoli qui, davanti a me.
Un bellissimo, piccolo corso di babywearing pancia a pancia.
Il papà si programma per provare la legatura con la mia fida Giulia, la bambola didattica. Ops…qualcosa è andato storto e tra le sue braccia c’è la sua bambina, in carne, ossa e pianto.
Babbo non preoccuparti della stoffa e nemmeno di quel che pensa mamma o le altre donne o io. Siete tu e lei, accucciata sul tuo petto. Fai due passi, parla con lei. Va tutto bene, lo sai fare.
Certo che lo sai fare, sei il suo papà. Il suo grande, meraviglioso papà. E mamma è bravissima che lo sa e si affida anche lei, da lontano, a quelle tue braccia così amorevoli. Così si calma. Piano, piano.
Papà e mamma sorridono e solo adesso sistemiamo la stoffa a regola d’arte.
Proviamo ancora: un’altra fascia, un’altra legatura. Adesso la piccola si addormenta sul petto di mamma.
Avete imparato bene, sono sicura. Ma ci sarò, se vorrete, anche a distanza, ogni volta che qualcosa vi farà sorgere un dubbio.
Ci salutiamo dopo due ore insieme.
Grazie
Sorrido.
Non c’è di che, avete fatto voi…è una cosa vostra
Sorride.
No, grazie perché è molto bello quello che fai, quello che dici, come lo dici è importante
Sorrido.
Non voleva nemmeno venire, lui, era tutto sospettoso!
Sorride, con aria soddisfatta.
É vero non mi ispirava per nulla, ho fatto solo per accompagnarla, perché le hanno regalato questo corso e lei ci teneva. Invece è bello. Ho fatto anche io…insomma ho legato anche io, quanto ti devo?
Forse adesso dovrei stare seria perché la faccenda è importante. Ma l’ossitocina, quando vuole, ti stiracchia ostinata gli angoli della bocca
Niente, no…i papà non sono appendici. Va bene così. Siete una famiglia. Anzi! ce ne fossero papà a tutti i corsi!
Raccoglie le cose, disvia lo sguardo giusto un attimo.
Bello. Ormai ci siamo abituati che non ci considerano mai. Ogni tanto fa bene qualcosa di diverso.
Ride, ridono. Nel viso beato le risate soffuse si riversano, creano legami tra i neuroni, impregnano d’amore trama e ordito. Un tutt’uno, una famiglia.
(Veronica)
Piccole storie ossitociniche.
Nella mia vita professionale incontro famiglie di ogni tipo. Qualsiasi sia la loro storia o la storia della loro famiglia, ciascuna di loro ha in serbo qualcosa di speciale da insegnarmi o da regalarmi.
In nome dell’ossitocina, sempre.
Ma quanto bisogno c’è di ossitocina, di amore, di ascolto?
Farò la mia parte cercando, ogni tanto, magari ogni sabato (sarebbe bellissimo!) di raccontarvene qualche spezzone. Ne ripescherò piano, piano anche qualcuna dal passato. Senza far nomi né dare indicazioni sui luoghi perché la grande bellezza di ogni storia è lo spazio che lascia per diventare altre mille storie simili a sé.
Avranno tutte questo titolo e questa immagine.
Con la speranza di regalarvi momenti di grande bellezza, di tanta ossitocina in piccole storie verissime.
(Veronica)
E se arriva l’anaconda?
La domanda più ricorrente che si pongono le mamme i papà ed i familiari o amici che li circondano è senza dubbio “ma perché questo bambino non sta da nessuna parte? Appena lo metto giù, piange!”
E proprio da questa domanda hanno origine i commenti ed i consigli che ognuno si sente in dovere di dare:
- È colpa tua, lo hai viziato
- È furbetto, ti comanda di già
- Mettilo giù, vedrai che si abitua
- Mica ti puoi far schiavizzare da un neonato
E poi i meno “dannosi” ma pur sempre notevoli a livello di stress:
- Ha fame
- Ha le coliche
- Ha freddo/caldo
Che fanno sentire i genitori spaesati, come se tutti sapessero interpretare meglio di loro i bisogni del loro cucciolo.
A questo aggiungiamo la stanchezza che tutti i genitori vivono nei primi mesi da genitori. E aggiungiamo, infine, last but not least, i doveri sociali e familiari che pretendono che i neo genitori lavorino, tengano la casa in ordine, abbiano una vita sociale e che i bambini sorridano, facciano versetti, mangino e ingrassino e dormano tranquillamente nei loro lettini/cullette/carrozzine/passeggini senza mettere in crisi gli adulti che li circondano.
Tutto questo rende spesso molto sofferente l’esperienza dei primi mesi di vita di un neonato, specie se si tratta di un neonato “ad alto bisogno”.
Chi sono i neonati ad alto bisogno?
Sono i piccoli che dormono solo attaccati al genitore, che stanno fissi al seno, che spesso piangono molto, che vanno “in crisi” dopo un qualsiasi eccesso di stimoli, che sono molto sensibili a livello tattile.
Sono neonati spesso definiti “faticosi”. E davvero lo sono, se si inserisce l’esperienza di far loro da genitori in un contesto come quello di cui parlavamo qualche riga più su.
E allora che si fa?
Una possibilità per “ricaricare le pile” almeno emotivamente è pensare a noi genitori e figli come quello che siamo: mammiferi
L’uomo, come mammifero, è un “portato attivo” ovvero nasce con competenze utili all’essere trasportato dai genitori o dagli adulti del branco.
Il riflesso di prensione serve per aggrapparsi
Il riflesso di Moro per cercare di recuperare l’adulto che improvvisamente il cucciolo si accorge di aver “perso”
La cifosi fisiologica della schiena per adagiarsi su una superficie non piana come il corpo di un adulto
La divaricazione delle gambe e le gambette a semicerchio sono la presa migliore per aderire al corpo in movimento dell’adulto.
Tutto questo perché il cucciolo d’uomo è un prematuro fisiologico, ovvero nasce (anche se a termine) ancora incapace di tante funzioni come, ad esempio, quella di muoversi in modo autonomo.
Nel nostro codice biologico non ci sono città e palazzi che sono molto recenti rispetto alla storia dell’umanità. Nel nostro codice biologico c’è la catena alimentare con prede e predatori. Un cucciolo d’uomo che, come dicevamo e come tutti sanno, non sa muoversi in modo autonomo sarebbe preda facile in natura ed il suo istinto di sopravvivenza gli dice che per non essere mangiato dall’anaconda (o dal falco o scegli tu il predatore più carino ) deve stare addosso ad un adulto in grado di muoversi.
I cuccioli più sensibili alla mancanza dell’adulto di riferimento, oggi chiamati “ad alto bisogno” sono semplicemente i cuccioli che in Natura sopravviverebbero più facilmente. Potremmo quindi chiamarli “ad alto indice di sopravvivenza” che forse già suona meno “patologico/problematico”.
Detto ciò, possiamo aggiungere che (per fortuna!) noi esseri umani abbiamo aggirato la selezione naturale e che oggigiorno i bambini che in natura si salverebbero e proseguirebbero la specie per la loro grande sensibilità sono sempre meno e perciò ci sembrano “strani”. Ma in ogni caso, la gran parte dei neonati – che siano o meno “ad alto indice di sopravvivenza” richiede il contatto, non per chissà quale strategia di seduzione o per chissà quali possibili errori pedagogico-educativi dei genitori ma per il semplice fatto che sanno che, se arriva l’anaconda, se li mangia in un boccone.
Non resta che aspettare con calma e pazienza che finisca l’eso-gestazione e che i cuccioli imparino e consolidino la loro capacità motoria autonoma, magari pensando che, ogni volta che assecondiamo la loro richiesta di essere tenuti addosso comunichiamo loro che ci stiamo prendendo cura, che non c’è anaconda che tenga davanti al nostro amore per loro. Ne faremo adulti sicuri e disposti a loro volta a proteggere ed ascoltare i bisogni e le aspettative biologiche dei loro simili, siano essi piccoli o grandi.
Per conciliare almeno un po’ le grandi richieste dei nostri ritmi di vita e sociali possiamo provare l’esperienza del babywearing e sostituire con una fascia colorata l’utilissimo mantello peloso di mamma e papà scimmia, a cui i cuccioli potevano aggrapparsi. E arrivare a dare disponibilità finché possiamo, finché riusciamo. Un cucciolo ascoltato è un cucciolo che ascolta.
In bocca al lupo (ed è proprio i caso di dirlo stavolta! )
(Veronica)
Vuoi approfondire? contattami pure per mail purocontatto@gmail.com o su whatsapp al 349.588.9362
SULLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Ho accettato la sfida di Purocontatto , lanciàtami per tentare disperatamente una riabilitazione delle professioni di aiuto e di pensiero (non solo la mia!), anche se la vivo come una impresa molto difficile.
Di recente medici e scienziati sono messi molto in discussione, sia (con giusta causa) da genitori intelligentemente critici verso i limiti del sistema dei saperi, sia dalla cosidetta era di internet che ha visto scardinarsi la possibilità del dubbio e quindi la fiducia verso “l’esperto” fino alla sua estrema polarizzazione.
Questa stessa dinamica ha però un po’ sempre riguardato la professione che io esercito: l’assistente sociale è sempre stata vissuta dall’opinione pubblica come
“quella che mi deve dare…. \ quella stronza che si permette di portare via i bambini” e certo mai come un esperto autorevole di benessere dei minori.
Questo è in parte accaduto sicuramente a causa di una professione che troppo spesso si è piegata all’assistenzialismo ed alla logica clientelare, ma anche perchè, come categoria di professionisti, sopratutto in Italia, stiamo facendo ancora molta fatica a dotarci di strumenti e metodi scientifici e oggettivi che rendano autorevole un sapere professionale.
All’estero la “scientificità” del lavoro sociale – soprattutto quello, difficilissimo e contestatissimo, della valutazione delle capacità genitoriali – è molto meno messa in discussione perchè il social worker è un professionista con metodi e modelli teorici solidi e incontrovertibili.
Fino a qualche mese fa, comunque, tutto questo discorso poteva riguardare “gli addetti ai lavori” e, casomai, qualche genitori interessato dal percorso adottivo o da una separazione conflittuale…
Poi sono esplose due notizie di cronaca:
– la possibilità, prevista nel Decreto Loenzin sull’obbligo vaccinale e poi elisa da un emendamento in Senato, che le aziende sanitarie territoriali segnalassero al Tribunale per i Minorenni i genitori inadempienti all’obbligo.
– il caso del piccolo Charlie Gand, in cui la volontà dei genitori sugli atti medici verso loro figlio si è trovata in opposizione alle decisioni dei sanitari, così dover interpellare i diversi gradi di giudizio di una autorità terza su una questione drammatica e complessa.
Queste due vicende, esagerate dalla stampa ed esasperate sui social, hanno comunque portato molte mamma e molti papà, molti amici, ad interrogarsi ed interrogarmi:
- Fino a che punto lo Stato può soverchiarmi come genitore?
- Quando ha “diritto” a farlo, ammesso che ce l’abbia questo “diritto”?
- Perchè non posso decidere per il mio bambino le cure più adatte a lui, il modello di salute che ritengo più opportuno?
Per rispondervi ho bisogno prima di annoiarvi coi fatti e con le informazioni, perchè ne ho sentite davvero di tutti i colori sulla legislazione, sulle competenze e sulle procedure; questi sono invece i punti dove un po’ di certezza e di ancoramento fattuale ci sono quantomeno di legislazione.
Poi entriamo invece nelle riflessioni, e lì le sfumature metodologiche si fanno più complesse e variegate.
I FATTI
La RESPONSABILITA’ GENITORIALE (avete letto bene: per legge, non si chiama più potestà genitoriale e tantomeno patria potestà, ed è una differenza terminologica densa di significato. Ricordiamocelo, quando rifletteremo più avanti) è regolamentata, nel nostro codice civile, dagli articoli che vanno dal 315 al 337 – con diverse modifiche e abrogazioni – nonché dalla legge 184/1983 (diritto del minore ad una famiglia), modificata dalla legge n. 149/2001 e successivamente dal D. Lgs. n. 154/2013 .
L’elevato numero di articoli di legge ci fa capire la complessità della materia, che tocca tutti gli aspetti che riguardano la relazione giuridica tra genitore e figlio , così riassumibili:
- custodire, ovvero destinare il proprio domicilio al minore, da cui non può allontanarsi senza il consenso del genitore;
- allevare, ovvero fornire il necessario per sopravvivere, per esempio alimenti e vestiario
- educare, secondo la diligenza del buon padre di famiglia, ai costumi del luogo dettati dall’esperienza comune;
- istruire, eccezione questa tra le potestà, che consiste in un “obbligo di risultato” il cui adempimento dipende dalla prestazione di terzi, per esempio il sistema scolastico;
- amministrare, sul piano ordinario, che comporta la gestione dei rapporti a carattere patrimoniale conservandone la sostanza;
- usufruire dei beni, che consiste nell’uso e nel godimento di una ressenza alterarne la destinazione d’uso;
- rappresentare, vale dire poter compiere negozi giuridici in sua vece, per es., al compimento degli obblighi scolastici, possono stipulare il contratto lavorativo di apprendistato oppure per es. permette di confrontarsi nel Consiglio di classe e con le autorità sanitarie.
In pratica, finchè va tutto bene, nella quotidianità della maggior parte dei genitori , esercitiamo naturalmente in ogni atto e in ogni momento la nostra responsabilità genitoriale quasi senza accorgercene, ma soprattutto senza che ad alcuno venga in mente di venire a mettercela in discussione.
Sono sempre meno rari, però , i casi in cui realizziamo, davanti a particolari eventi della vita o notizie di cronaca, che questa naturalezza non è scontata, proprio perchè fra gli articoli di legge che ho citato prima ce ne sono numerosi che affrontano proprio la regolamentazione di ciò che accade quando la responsabilità genitoriale “va in crisi” e l’autorità giudiziaria è chiamata ad occuparsene.
Pensate ad esempio, uso la casistica più frequente ormai, alle separazioni: va tutto bene finchè , essendo insieme, è quasi “scontato” che siamo d’accordo sulle decisioni da prendere per i bambini (scuola, dentista, catechismo…..).
Ma poi ci separiamo e salta fuori che non siamo più così coesi; e siccome la responsabilità genitoriale è sempre condivisa, anche quando non stiamo più insieme, non sappiamo più capire se ha più ragione la mamma o il papà.
Chi decide in questi casi? Il giudice!
L’ordinamento lo prevede anche per le mamme e i papà sposati o conviventi, se si aprisse una divergenza.
Ma noi, fino a quel momento non sapevamo che l’ordinamento prevede questo, e pensare che possa essere un terzo, magari avvalendosi dell’aiuto di esperti come psicologi o assistenti sociali, a toglierci un po’ del nostro potere (pensate alla parola potestà) sui nostri figli, ci fa scattare subito un aggressivo istinto di difesa.
Ma riflettiamo. Stiamo parlando di responsabilità condivisa. Facciamo un paragone con il diritto commerciale: può capitare che due soci siano in disaccordo sulla linea migliore per l’impresa. In quel caso ci deve essere per forza la previsione di un mediatore.
La chiave non è il potere ma la migliore gestione degli interessi di UNA ENTITA’ TERZA. Tanto che se poi pensiamo che un socio o la totalità dei soci siano degli incapaci o violino le leggi sul fisco, sarà necessario nominare un curatore fallimentare, o la società andrà a rotoli.
Fino qui forse è chiaro a tutti, e probabilmente i più saranno d’accordo.
Eppure, quando si parla di giudice e di servizi sociali, le coppie entrano in un delirio di onnipotenza per cui tendono a boicottare ogni lavoro di supporto alla risoluzione del conflitto, per mille motivi primo fra i quali la paura che “me li portino via”
E anche se, come vedremo più avanti, questa è un’ipotesi fortunatamente assai remota (nella misura in cui è l’extrama ratio), limitata davvero ai casi più gravi in cui non si può fare altro, questo spauracchio è duro a morire e contamina pesantemente il nostro lavoro di cura.
Una certa stampa e la cattiva comunicazione della professione hanno creato questo cortocircuito, dimenticandosi volutamente di evidenziare la garanzia principale che ogni cittadino ha da questo rischio: il procedimento DE POTESTATE e’, come tutti quelli dell’ordinamento italiano, un contraddittorio con giusto processo!
Non succede, non può succedere , che un assistente sociale si svegli ed, in combutta col giudice, ti “porti via i bambini”.
C’è una pubblica “accusa”, o meglio un rappresentante dello Stato che avanza e difende gli interessi del minore in potenziale pericolo, cioè il pubblico ministero presso La Procura Minori.
C’è la parte “avversa” cioè i genitori, con la loro “idea” di come crescere il proprio figlio; hanno dovere e diritto ad una difesa: atti, testimoni, memorie, motivazioni.
Poi c’è il giudice, chiamato a decidere se sia motivata la preoccupazione dello Stato per questo bambino o, al contrario, se i genitori non stiano creando pregiudizio o danno al bambino né violando un qualche dovere di quelli previsti dalla responsabilità genitoriale e\ o da altre leggi volte a tutelare l’infanzia.
E dove stanno gli assistenti sociali? Qui spesso casca l’asino. Non sono parte in causa. Sono ausiliari del giudice , o caso mai del Pubblico Ministero in alcuni casi (fase di indagine, predibattimentale): il loro compito è fornire quanti più elementi e informazioni sulla situazione di quel bambino a chi deve prendere una decisione per lui, oppure anche aiutare nel percorso di messa in opera di quella decisione.
Attenzione, che qui casca invece l’asino della mia categoria (perchè bisogna anche saper fare autocritica!) : gli elementi devono essere quanto più possibili oggettivi, liberi da interpretazioni e pregiudizi personali, evidence based cioè sostenute da fatti e indicatori chiari fin dall’inizio!
Voglio soffermarmi a chiarire un aspetto importante: il procedimento de potestate davanti al Tribunale per i Minorenni, che è di natura civile (non penale!), non cerca di trovare un colpevole per condannarlo, e nanche di “dare ragione” ad una delle parti.
L’obiettivo è diverso e duplice: accertare se davvero c’è il pregiudizio per il bambino così come segnalato da qualcuno (il procuratore minorile riceve le segnalazioni di scuole, ospedali, genitori stessi, operatori, forze dell’ordine, che sono quasi sempre dubitative e interlocutorie tipo “siamo preoccupati, forse a questo bambino sta succedendo qualcosa, aiutateci..”) e, in caso ci fosse un rischio concreto, attivare tutti gli interventi necessari a superare quella condizione di disagio e rimettere il minore al sicuro CON O SENZA IL CONSENSO DEI SUOI GENITORI!
E’ chiaro che se il Giudice e\o i suoi esperti trovano in quei genitori spazi di accordo, collaborazione, accettazione dell’aiuto, il procedimento de potestate si chiude…si lascia aperto un monitoraggio, si lavora per il benessere del bambino DENTRO il benessere della sua famiglia.
Se invece questo non è possibile, se i genitori sono oppositivi e resistenti a tutto, il percorso di sostegno e cura del piccolo deve essere messo in mano alla RESPONSABILITÀ di qualcun’altro: da qui nascono i provvedimenti di limitazione o revoca della responsabilità genitoriale e l’affido a terzi.
Ora, un genitore che ha avuto la pazienza di leggere fin qui, si chiederà come può essere coinvolto in tutto questo, in che circostanza potrebbe mai “incappare” in una segnalazione e trovarsi ad affrontare uno scenario simile.
Vi tranquillizzo subito: nella stragrande maggioranza dei casi, per non dire nella totalità, parliamo di circostanze che non riguardano quasi sicuramente chi legge qui. Parliamo di famiglie con dinamiche perverse, con modalità trascuranti, maltrattanti, inadeguate per le più diverse ragioni: culturali, socioeconomiche….siete lontani da tutto questo.
Ma sono sicura che a ciascuno di voi sarà venuto in mente “quel compagno di vostro figlio, quel bimbetto che in parrocchia…”
E qui mi permetto una nota amara: per diversissime ragioni, che vanno dall’impoverimento della rete dei servizi alle modifiche legislative legano sempre più le mani ai giudici minorili: le segnalazioni si assottigliano anche se invece il disagio dilaga; e spesso le segnalazioni che si riescono a fare vengono archiviate, perchè gli elementi sono ritenuti troppo sottili.
Spesso i giudici non riescono a prendere decisioni coraggiose, perchè comunque si spezzano legami e si mette in crisi un sistema familiare: il risultato è che i bambini sono sempre più in sofferenza o in pericolo.
Questo per rispondere, lo ripeto amaramente, a chi vi fa pensare (con certe news, con certi servizi modello “Le Iene”) che sia terribilmente rischioso e facile che un bel giorno arriva un giudice e una assistente sociale e mi tolgono il bambino.
Non è così, non è affatto facile anche quando il maltrattamento è palese, anche supportato da dati certi (referti di ospedale, foto, racconti diretti del bambino…).
Anche in questo l’estremismo di una certa forma di opinione pubblica, quella sempre più dilagante nei social, non aiuta: o ci si posiziona sulla modalità condannante (bambino subito in adozione e genitore al rogo: e se ci fosse una sofferenza genitoriale dietro? una possibilità di lavorarci?) oppure su quella ipergarantista (era una brava mamma, ma che valutazioni hanno fatto gli assistenti sociali? Basate su cosa? Perchè non l’hanno aiutata? Forse la signora non vuole aiuto, forse il bambino non ha lividi ma segni ben più subdoli…).
É relativamente facile diffidare di queste modalità di giudizio: il centro è sempre il potere del genitore e non è mai la storia del bambino.
Ora arriviamo finalmente invece alla zona più grigia, ai casi più limite che ci hanno interrogato in questi giorni: i vaccini e Charlie Gand.
Intanto lasciatemi dire che la questione della responsabilità genitoriale accomuna queste due vicende per un lembo molto piccolo, solo quello che ci interroga su fino a che punto il potere dei genitori possa essere messo in discussione.
Il caso di Charlie nel suo complesso è denso di aspetti umani, bioetici, tecnici, antropologici e morali su cui io non pretendo di avere le conoscenze per potermi esprimere. Leggo e mi interrogo, continuamente.
Rispetto alla singola questione riguardo la responsabilità genitoriale di questa madre e questo padre, lasciatemi dire che io, pur da tecnica del settore, non conosco la legislazione inglese sulla potestà genitoriale e sulla sua limitazione in caso di problematiche sanitarie, quindi non posso esprimermi su questo aspetto della vicenda legale di Charlie (che peraltro sto cercando di approfondire: ho capito per esempio che il loro esercizio di responsabilità non è sospeso, non è stato messo in discussione circa la capacità di fare bene i genitori…ma devo capire meglio).
So invece che la legislazione italiana permette, ha sempre permesso, di – se necessario – rimettere nelle mani di un Giudice decisioni mediche importanti per il benessere del bambino.
Ma nella mia esperienza devo – ahimè! – registrare che ho visto utilizzare questa facoltà sempre con troppa, troppa ritrosia, quando era tardi e i buoi erano già scappati.
E’ giusto che un medico si interroghi profondamente ed attentamente prima di attivare “segnalazioni facili” al Tribunale per i Minorenni, è – soprattutto – più che mai giusto che sia formato nell’avere gli strumenti necessari per costruire il consenso con i genitori che magari all’ inzio non c’è.
E’ altrettanto giusto l’opportunità di far intervenire una autorità superiore in caso di disaccordo ci sia, se l’incolumità dei bambini può essere messa a rischio da decisioni non buone dei genitori.
Fare un esempio, anche di cronaca, non è difficile: i figli di testimoni di Geova che rifiutano trasfusioni, i bambini alimentati con diete inopportune che cadono vittima di gravi carenze vitaminiche, i figli di seguaci di medicine alternative che rifiutano la chemioterapia davanti a tumori guaribili con essa; difficile magari è posizionarsi, ma cosa scegliereste voi tra il rispetto di una scelta ideologica adulta e il pregiudizio grave sulla vita di un bambino?
Nel caso dei vaccini, evito qui di esprimere la mia opinione personale sulla questione generale e sulla tematica dell’obbligo perchè serve a poco; mi soffermo sulla, ormai scongiurata, possibilità che gli inadempienti fossero segnalati al Tribunale per i Minorenni come “genitori che non rispettano una norma creata a difesa della salute dei minori e della salute pubblica in generale” (ora la capite meglio la differenza, vero? non sarebbe mai stata messa in discussione la capacità e la bontà di quei genitori, ma il loro rifiuto a rispondere ad una norma che, secondo lo Stato, protegge la salute dei figli…).
Lasciatemi dire che come professionista, mi sono interrogata molto, in modo profondamente critico su questa ipotesi.
Intanto perchè io rivendico una visione più ampia del benessere e della salute di un bambino ( singolo, o della collettività di una generazione ) : certo che può essere importante, e magari all’inizio inevitabile, obbligare i genitori resistenti ideologicamente e magari molto maleinformati a provvedere ad una atto di salute come il vaccino.
Però ci sono genitori che sfiorano la trascuratezza e l’inadeguatezza circa la salute e le cure anche se parliamo di alimentazione, tecnologia e sviluppo psicognitivo, abuso dei farmaci per adulti: che facciamo, li segnaliamo tutti?!?
No. Serve informazione, prevenzione, misure di costruzione del consenso con le istituzioni mediche e sociali….insomma tutto ciò che quotidianamente si smantella privando il sociale dei fondi e del personale.
Altro discorso ancora poi è pensare che una famiglia che sollevi dubbi LEGITTIMI sulla vaccinazione del proprio figlio, magari perché c’è una storia familiare di reazioni allergiche o di problemi immunocorrelati, avrebbe potuto rischiare di doversi prendere la briga di “giustificarsi” davanti ad un giudice minorile, che sinceramente ha tanti e tanti minori in grave pericolo di cui occuparsi.
Per essere più chiara e andare nel dettaglio così da tranquillizzare e comunicare la professione correttamente, lasciatemi immaginare con voi come sarebbe potuta andare una (ormai) ipotetica segnalazione al TdM per inadempienza vaccini.
La procedura all’inzio è uguale, poi biforcheremo l’esempio in due casi…
La Asl di Vattelapesca segnala la famiglia di Giovannino alla procura minori della sua regione; il procuratore verifica che la segnalazione sia fondata e invia il fascicolo al magistrato minorile. Egli a questo punto potrebbe convocare direttamente i genitori o inviare ai servizi sociali una richiesta di indagine su questo nucleo, circa la specifica problematica. Naturalmente i genitori in questione, informati dell’apertura di procedimento, sono tenuti a farsi rappresentare legalmente da un avvocato. L’avvocato ha facoltà di seguirli in ogni passaggio, essendo presente (sì, anche ai colloqui con le assistenti sociali) e chiedendo chiarimenti e garanzie. Può anche leggere le relazioni e le comunicazioni fra giudice e servizio. Dunque voi capite: non ci dovrebbe proprio essere spazio per noi esperti del giudice per lavorare male o in modo partigiano e infedele.
In ogni caso il percorso di valutazione con le famiglie SI CONDIVIDE, nelle risorse buone che emergono così come nelle criticità. E’ un DOVERE DEONTOLOGICO.
Ammettiamo che il giudice decida di dare mandato ai servizi e io mi trovi a dover convocare la mamma e il papà di Giovannino per capire come stanno le cose.
Qui biforchiamo:
Caso 1: mi trovo la classica mamma che legge il blog dei 5 stelle, mammepedia e complottoblog e su quello, aderendo acriticamente ad un pensiero non scientifico, ha deciso che non vaccina i suoi pupi. Io posso e devo aiutarla a maturare un pensiero critico sulle cose che ha letto, sul confronto con la scienza e sul benessere ed il rischio per il suo bambino.
Nota bene: ricordiamo che in quel momento io sono un professionista che SERVE LO STATO. Le e gli assistenti sociali non hanno l’obiezione di coscienza, importa ‘na cippa a nessuno come la penso io davvero sui vaccini! Diciamo che io Rossana a servire lo Stato sono abbastanza fortunata e non vado troppo in crisi. Ma se così non fosse non potrei certo colludere con la madre che ho descritto sopra!
Il mio compito è capire cosa accade a questa famiglia e, se riesco, costruire un consenso . Se non riesco, devo riportare al giudice le dinamiche della scelta di questi genitori e dare a lui elementi per valutare se sono pregiudizievoli per il bambino.
Se lui decidesse che effettivamente lo sono, potrebbe sospendere la parte di potestà che riguarda questa decisione medica e disporre, con un atto motivato contro il quale si può fare ricorso in appello, la vaccinazione del bambino.
Fortunatamente questa ormai è un’ipotesi scongiurata. Potrei evitare, perciò, di dirvi che a volte non riusciamo a far eseguire decreti che mettono i bambini al sicuro da madri alienanti o padri violenti….figuriamoci i vaccini! Ecco.
Insomma: se non adempi ad un decreto del tribunale minori non è che ti piombano gli elicotteri in casa, per capirci.
Caso 2, il più interessante: mi trovo altri genitori, diversi, che sono più che disponibili a spiegarmi, e a “provarmi” anche (semplicemente facendomi vedere le stesse documentazioni sulle quali si sono basati loro per scegliere!) che c’è una storia familiare di reazioni allergiche o di problemi immunocorrelati, ma che non hanno trovato un pediatra disponibile a certificare la cosa (come da articolo 1 comma 3 del decreto) perchè la loro è diciamo più una paura che non una stretta evidenza scientifica. A parte che mi complimento con la pusillanimità del pediatra, la valutazione da dare al giudice su questa vicenda c’è: è nella motivazione e nella storia di quel bambino e della sua famiglia, ed è ragionevole e sensata. Molto probabilmente il Giudice archivierà con un non luogo a procedere.
Quando leggete sui social storie troppo diverse da questa procedura che ora un po’ meglio conoscete, dubitate. Interrogatevi. E’ molto facile giudicare un lavoro complesso con famiglia in difficoltà di cui in realtà non sappiamo nulla.
Spesso nella dinamica problematica di una famiglia c’è anche la sua soluzione: il compito del Servizio Sociale è, maieuticamente, farla emergere. E se a volte, per attivare questo processo, serve la coercizione di un’autorità è nostro dovere utlizzarla: il centro del nostro agire non è il potere sul bambino, è il suo benessere ed il suo supremo interesse.
(Rossana)
Mani che tracciano percorsi
Quando a due o tre anni ti presentano un fratellino o una sorellina non hai tante parole per accoglierlo.
E nemmeno per raccontare cosa ti accade nel cuore, quel tumulto di emozioni che si mischiano: amore istintivo, paura, gelosia, entusiasmo.
Quanti sentimenti! E quante poche parole!
Eppure la via d’uscita esiste e loro lo sanno, i bambini, come fare: hanno la loro risorsa più preziosa, il linguaggio della pelle.
Per conoscere il nuovo arrivato lo vogliono e lo devono toccare.
Per poter comprendere l’istintivo amore, vogliono e devono abbracciare e baciare quel fratellino.
Per metabolizzare la loro gelosia, la loro paura, vogliono e devono essere abbracciati, toccati, accarezzati, contenuti e rassicurati da chi non conosce menzogna: la pelle.
Però, spesso, non sappiamo ritagliarci un momento per dar spazio a questo tipo di contatto.
Pensiamo che il tempo dedicato al grande sia “valido” solo se il piccolo non è presente.
Temiamo che la maldestrezza tipica dei due-tre enni possa nuocere al neonato.
E restiamo con la grande frustrazione di non star costruendo niente di armonico, rifugiandoci nella “saggezza” comune del “poi passa”.
Ma che cosa debba passare, esattamente chi lo sa?
Se passerà l’emozione, se passerà il bisogno di esprimerla, chissà?
Nel frattempo quel che passa sono le giornate, nel tentativo costante di inibire il contatto maldestro, di cercare momenti da dedicare solo al più grande, districandosi tra i pianti di uno e dell’altro così diversi eppure così uguali.
E se invece ci fosse un piccolo aiuto?
No, non parlo di nonne e suocere che vengono a cucinare o a portare il grande ai giardini. Ben vengano ma non sono, adesso, il nostro “fuoco”.
Vorrei raccontarvi, infatti, della magia del massaggio infantile.
Di tutti i benefici del massaggio infantile sul neonato e sulla relazione tra neonato e genitore potete leggere sul sito ufficiale di AIMI.
Qui, invece, vi voglio parlare del potere del massaggio sui fratelli ed in funzione della stabilizzazione di un nuovo equilibrio familiare.
Il bambino grande ha bisogno di toccare, di entrare in relazione, di sentire, di conoscere.
Come si concilia questo con il timore che i gesti ancora maldestri non siano pericolosi per il bimbo?
La reazione più comune degli adulti è negare o interrompere il contatto accompagnando il gesto con le espressioni più incomprensibili della storia, almeno per un bambino:
– No! così gli fai male! [ok, così no…e come allora?!]
– Fai piano! [io STO facendo piano!]
– Fai “caaaaaro”! [Ok, devo fargli una carezza. Quanto pesa la carezza?]
Senza alternative, o con alternative così vaghe che l’unica cosa che il bambino può capire è che quel che sta facendo o come lo sta facendo non va bene.
Si rischia di aumentare la distanza, di dare un messaggio di incompetenza , di trasmettere sfiducia e sospetto, di nervosismo.
Si rischia di ignorare che gran parte della maldestrezza è dovuta al vortice emotivo e che quest’ultimo non farà che intensificarsi, in questo caso.
Il massaggio è un angolo di responsabilizzazione, di permesso, di concentrazione.
Sono bambini piccoli, ma chi l’ha detto che un bimbo piccolo non può ascoltare, comprendere, imparare?
Una proposta preziosa può essere massaggiare insieme.
Spiegare i gesti, anche attraverso il tatto, il contatto. Mostrarli, farli provare. Una mano dopo l’altra lentamente. Magari sulle gambine, che non sono così delicate.
Un piccolo rituale ogni volta: prendere e scaldare l’olio tra le mani, chiedere il permesso, scoprire il tocco gentile che “ascolta” prima di iniziare.
Tutto, nel massaggio, canalizza l’emozione confusionaria verso qualcosa di importante, di strutturato.
Ecco un modo per toccare quel piccolino con competenza, con concentrazione. Ecco che mamma e papà insegnano e quindi si fidano, danno un compito, un ruolo, definiscono un posto emotivo e fisico di libertà: perché laddove non siamo “schiavi” delle emozioni, siamo liberi, profondamente, di esprimerle, di viverle, di starci dentro nell’ascolto e nell’elaborazione. Laddove ci sentiamo valorizzati nel nostro ruolo e nelle nostre capacità, siamo già più capaci di dare.
Nel massaggio condiviso, stiamo dedicando del tempo prezioso, un momento prezioso che proprio lo è perché non è esclusivo.
Con questi momenti si sostiene il nuovo equilibrio. Perché si vive un momento bello insieme, senza esclusioni: si capisce che il bello continuerà anche con il nuovo arrivo, anzi, specialmente con il nuovo arrivo.
Poi l’ossitocina riempie l’aria ed improvvisamente anche il grande chiede un massaggio. Magari piccolo, magari rapido. Oppure un abbraccio, una coccola alla testa.
Ecco la porta per entrare in un contatto più profondo, più diretto, più sincero. Un contatto non mediato da schemi mentali, aspettative, timori. Un contatto magico che ha il potere di unire, rilassare, trasmettere amore come nessun altro.
Per questo sono così grata le rare volte in cui un genitore viene al corso accompagnata dal bambino grande. Perché so che è iniziato il loro percorso che le porterà ad essere una nuova e rinnovata splendida famiglia.
Le mani lo disegnano, tiepide d’olio, sulla pelle e magari su una bambola. E poi si intrecciano e poi una testolina bionda si appoggia al petto di mamma, scappa un sorriso, appare una piccola tazza per prendere il tè come i grandi e con i grandi mentre il piccolo succhia il seno o pisola, rilassato, sul cuscino.
Nella stanza si diffonde un’emozione carica di dolcezza, di empatia, di partecipazione.
E le chiacchiere delle mamme, oggi, si sono scordate di animare la pausa, soppiantate da un silenzio vibrante, carico d’amore.
(Veronica)