Categoria: allattamento al seno

Attaccamento morboso

Spesso si sente definire l’attaccamento tra genitori e figli (e più ancora quello tra le mamme e i loro figli) “morboso”.

Considerando la possibilità che ci siano relazioni non sane, vorrei soffermarmi sul significato della parola e sulla norma biologica dell’essere umano.

Il mammifero uomo è un prematuro fisiologico. Questo significa che, anche nascendo a termine, un cucciolo d’uomo ha bisogno di un certo tempo perché le sue funzioni neurologiche e fisiologiche si stabilizzino.

Nei primi 1000 giorni di vita il cervello di un essere umano cresce circa 1gr al giorno. Il contatto positivo, le sensazioni piacevoli favoriscono il crearsi dei collegamenti sinaptici.

Un cucciolo d’uomo nasce con tante competenze ma tante deve crearsele. In primis deve acquisire le capacità di muoversi in modo autonomo per il mondo, deve stabilizzare il proprio sonno, deve preparare il proprio sistema digerente ed intestinale per i cibi solidi e così via.

Oggi OMS ci dice che l’allattamento al seno, quando possibile, è da preferire a qualsiasi altro alimento sul piano nutritivo ma SOPRATTUTTO sul piano relazionale è da protrarsi finché la diade ne sente il bisogno, anche oltre i due anni, perché oltre a portare benefici al corpo, crea una relazione solida e una comunicazione efficace.

Lo stesso si dica delle coccole, degli abbracci, dei massaggi, delle carezze e dei baci: l’essere umano ha bisogno di stimolazioni sensoriali e affettive per crescere sano e sicuro.

Quindi le relazioni affettuose – anche e soprattutto fisiche – tra genitori e figli sono sane, non malate. Oltre stimolare la crescita sana a livello muscolare, neurologico e relazionale dei bambini, insegnano loro a riconoscere il tocco buono, rispettoso, amorevole di chi li ama e a distinguerlo, appunto, dalla morbosità reale. A loro volta, imparano ad amare e a rapportarsi fisicamente agli altri in modo rispettoso e amorevole.

Quindi non confondiamo le cose e lasciamo la patologia ai campi in cui effettivamente ci sono delle disfunzioni relazionali grosse (che invece, specie nel mondo adulto, oggigiorno sembrano essere la norma). La prossima volta che incontrerete un genitore che sta accudendo suo figlio, sorridete loro. Anche se per la vostra visione quel bambino fosse “troppo grande” per essere portato addosso, allattato, massaggiato.

Riserviamo la nostra capacità di dissenso per le reali morbosità: forse nella nostra società ci saranno meno violenze.

morbóso agg. [dal lat. morbosus]. – 1. Nel linguaggio medico, che è proprio di un morbo, o che ad esso si riferisce, o, più genericam., che ha significato patologico: stato m.; condizioni m.; sintomi m.; sintomatologia m.; anche, che apporta un morbo, una malattia: causa m.; agenti morbosi. 2. In senso fig., di sentimento, che, nel suo manifestarsi, denota eccessività rispetto alla norma, e quindi mancanza di misura e di equilibrio; per estens., opprimente, ossessivo

Invece, queste, sono immagini d’amore sano, sanissimo, prezioso.

Non confondiamo le cose.

(Veronica)

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Il lato scuro (o meglio, rosso) dell’allattamento

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“Mi sento solo una poppa!”

É una frase che si sente spessissimo dalle mamme, specie le mamme al primo bambino o al primo allattamento, e ancor di più dalle mamme che allattano oltre l’anno di vita del bambino.

É un sentimento complesso, a volte quasi doloroso, quasi sempre almeno fastidioso.

Un bambino grande che, in presenza della madre,  richiede il seno ancora come risposta unica alle difficoltà mentre in sua assenza mostra risorse alternative, ci mette in crisi.

La sensazione è quella di essere “ridotte”, a livello relazionale, al solo seno.

Da tanto tempo mi chiedo se non ci sia la possibilità di comprendere a fondo il punto di vista dei bambini e contemporaneamente quello delle madri, con la sensazione che alla base del malessere di quest’ultimo ci sia di fatto un grande equivoco interpretativo.

Occupandomi di pelle, in ogni sua espressione, ho trovato quella che, almeno per me, può essere una buona lettura della questione. E spero che lo sia anche per altre madri o, per lo meno, possa essere spunto di riflessione per aiutare ciascuna a venire a capo della propria storia.

Premetto che non voglio assolutamente pormi in modo giudicante nei confronti di scelte, emozioni o percorsi individuali ma appena chiarire quelle che possano essere le origini di questo divario emotivo che spesso si crea tra madre e figlio.

Ripercorrendo i passi dell’educazione media di una bambina nella nostra società mi soffermo a pensare che fin da piccole siamo spinte a valutare in modo molto disuguale l’amore come sentimento, come affinità elettiva, come relazione emotivo-intellettuale da una parte e l’amore fisico come relazione dei corpi, come scambio di pelle dall’altra.

Le frasi e le espressioni che più spesso ritornano nella vita di una donna sotto forma di ammonimento, di indicazione e di educazione amorosa sono grossomodo sempre le stesse da generazioni:

“Stai attenta, gli uomini vogliono solo quello”

“Il sesso senza amore non vale nulla”

“Cerca un uomo che ami più il tuo cervello delle tue curve, mia cara”

“Cerca il vero amore che il sesso finisce”

“Quando deciderai di fare sesso, che sia l’uomo giusto, un uomo che ami davvero”.

La relazione fisica é sempre subordinata alla relazione sentimentale, intellettuale, come se fare l’amore, scambiarsi la pelle, comunicare attraverso il corpo e la sua capacità di dare e ricevere calore e piacere, siano soltanto il necessario completamento di una relazione che trova il proprio valore nella parte intellettuale.

Stilnovo? Estremismo cattolico? Femminismo mal interpretato? Da dove venga tutto questo denigrare la relazione fisica non sono in grado di dirlo.

Ma quando i nostri bambini iniziano ad esprimersi, camminare, gesticolare o addirittura parlare, quello che spesso ci aspetteremmo in fondo al cuore é l’inizio della sublimazione della relazione, ci aspetteremmo che si stacchi dal corpo per elevarsi a livello dell’intelletto, della comunicazione verbale e semi verbale, del gioco delle risorse.

I bambini no. Stanno attaccati con le unghie e con i denti alla relazione tattile, allo scambio di pelle, a quella potente tattilità in grado di calmare, coccolare, sostenere, acquietare, consolare. Il corpo é al centro del loro modo di amare, al centro dell’intesa faticosamente costruita con la persona che è il pernio su cui gira il loro mondo. Un amore fisico, fisicissimo. Il corpo al centro.

É possibile che qualcuno si sentirà offeso per un parallelo così fuori luogo tra l’amore romantico e l’amore genitoriale e filiale. Ma credo sia interessante collegare ogni momento della nostra vita senza assurde barriere di pensiero. Tanto più che chiunque abbia allattato in pubblico ha ricevuto almeno una volta un commento o un’occhiata di condanna che dimostra come gli ambiti di accudimento e sessualità non siano affatto socialmente distinti.

Altrettanto, è ovvio che a creare insofferenza si prodigano anche altri fattori come la stanchezza, il giudizio sociale o il bisogno di tornare ad essere solo se stesse, senza una qualche appendice già, all’uopo, deambulante. Ma ci sono varie espressioni di insofferenza. Ciascuna corrispondente ad una diversa origine prevalente.

Laddove, però, si manifesta un tipo di delusione relazionale (che di solito si esprime con la frase con cui abbiamo iniziato o simili), possiamo provare a riflettere su quanto ci ferisca essere per i nostri figli “soltanto un corpo/un seno”. E perché ci ferisca così tanto. Perché ci aspettiamo che dei piccoli mammiferi, che si sforzano tanto di comunicare con “gli altri”, si sforzino altrettanto per farlo anche con noi, ignorando la bellezza e la preziosità del nostro canale privilegiato, tattile, di comunicazione. Se qualcuno per spostarsi velocemente si impegna, in mancanza di meglio, a pedalare in salita su una vecchia bici, avrebbe senso aspettarsi o pretendere che lo faccia anche quando arriva chi di solito gli offre un passaggio in limousine?

E perché lo pretendiamo o ci aspettiamo una cosa così poco sensata? É verosimile che questa pretesa/aspettativa si fondi sul considerare la relazione intellettuale più aurea di quella fisica? É verosimile che anni e generazioni di donne cresciute senza corpo o come se il proprio corpo fosse un accessorio necessario ancorché fastidiosamente pesante, ci rendano impazienti – riguardo i grandi amori della nostra vita – di abbandonare il linguaggio della pelle per passare alla loro zona di confort relazionale che è la sfera dell’intelletto?

Perché se questo è, come credo, verosimile, ancora una volta i nostri bambini ci concedono una grande opportunità: quella di rivalutare la bellezza della relazione fisica in ogni suo aspetto, in ogni sua sfaccettatura. Aggrappate alla nostra costellazione molecolare ossitocinica, abbiamo la possibilità di rinascere più complete sotto il tocco delle mani e delle labbra dei nostri figli e delle nostre figlie, appassionati dell’amore più grande, più totale e più cristallino che mai potremmo vivere e di cui potremmo essere amate.
(Veronica)

Un grazie speciale va a Paola Mazzinghi, consulente IBCLC, per starmi vicina con la sua presenza dolce e professionale, in ogni riflessione sull’allattamento e dando il supporto a tutti i genitori a cui ho il piacere di consigliare la sua consulenza

E se arriva l’anaconda?

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La domanda più ricorrente che si pongono le mamme i papà ed i familiari o amici che li circondano è senza dubbio “ma perché questo bambino non sta da nessuna parte? Appena lo metto giù, piange!”

E proprio da questa domanda hanno origine i commenti ed i consigli che ognuno si sente in dovere di dare:

  • È colpa tua, lo hai viziato
  • È furbetto, ti comanda di già
  • Mettilo giù, vedrai che si abitua
  • Mica ti puoi far schiavizzare da un neonato

E poi i meno “dannosi” ma pur sempre notevoli a livello di stress:

  • Ha fame
  • Ha le coliche
  • Ha freddo/caldo

Che fanno sentire i genitori spaesati, come se tutti sapessero interpretare meglio di loro i bisogni del loro cucciolo.

A questo aggiungiamo la stanchezza che tutti i genitori vivono nei primi mesi da genitori. E aggiungiamo, infine, last but not least, i doveri sociali e familiari che pretendono che i neo genitori lavorino, tengano la casa in ordine, abbiano una vita sociale e che i bambini sorridano, facciano versetti, mangino e ingrassino e dormano tranquillamente nei loro lettini/cullette/carrozzine/passeggini senza mettere in crisi gli adulti che li circondano.

Tutto questo rende spesso molto sofferente l’esperienza dei primi mesi di vita di un neonato, specie se si tratta di un neonato “ad alto bisogno”.

Chi sono i neonati ad alto bisogno?

Sono i piccoli che dormono solo attaccati al genitore, che stanno fissi al seno, che spesso piangono molto, che vanno “in crisi” dopo un qualsiasi eccesso di stimoli, che sono molto sensibili a livello tattile.

Sono neonati spesso definiti “faticosi”. E davvero lo sono, se si inserisce l’esperienza di far loro da genitori in un contesto come quello di cui parlavamo qualche riga più su.

E allora che si fa?

Una possibilità per “ricaricare le pile” almeno emotivamente è pensare a noi genitori e figli come quello che siamo: mammiferi

L’uomo, come mammifero, è un “portato attivo” ovvero nasce con competenze utili all’essere trasportato dai genitori o dagli adulti del branco.

Il riflesso di prensione serve per aggrapparsi

Il riflesso di Moro per cercare di recuperare l’adulto che improvvisamente il cucciolo si accorge di aver “perso”

La cifosi fisiologica della schiena per adagiarsi su una superficie non piana come il corpo di un adulto

La divaricazione delle gambe e le gambette a semicerchio sono la presa migliore per aderire al corpo in movimento dell’adulto.

Tutto questo perché il cucciolo d’uomo è un prematuro fisiologico, ovvero nasce (anche se a termine) ancora incapace di tante funzioni come, ad esempio, quella di muoversi in modo autonomo.

Nel nostro codice biologico non ci sono città e palazzi che sono molto recenti rispetto alla storia dell’umanità. Nel nostro codice biologico c’è la catena alimentare con prede e predatori. Un cucciolo d’uomo che, come dicevamo e come tutti sanno, non sa muoversi in modo autonomo sarebbe preda facile in natura ed il suo istinto di sopravvivenza gli dice che per non essere mangiato dall’anaconda (o dal falco o scegli tu il predatore più carino ) deve stare addosso ad un adulto in grado di muoversi.

I cuccioli più sensibili alla mancanza dell’adulto di riferimento, oggi chiamati “ad alto bisogno” sono semplicemente i cuccioli che in Natura sopravviverebbero più facilmente. Potremmo quindi chiamarli “ad alto indice di sopravvivenza” che forse già suona meno “patologico/problematico”.

Detto ciò, possiamo aggiungere che (per fortuna!) noi esseri umani abbiamo aggirato la selezione naturale e che oggigiorno i bambini che in natura si salverebbero e proseguirebbero la specie per la loro grande sensibilità sono sempre meno e perciò ci sembrano “strani”. Ma in ogni caso, la gran parte dei neonati – che siano o meno “ad alto indice di sopravvivenza” richiede il contatto, non per chissà quale strategia di seduzione o per chissà quali possibili errori pedagogico-educativi dei genitori ma per il semplice fatto che sanno che, se arriva l’anaconda, se li mangia in un boccone.

Non resta che aspettare con calma e pazienza che finisca l’eso-gestazione e che i cuccioli imparino e consolidino la loro capacità motoria autonoma, magari pensando che, ogni volta che assecondiamo la loro richiesta di essere tenuti addosso comunichiamo loro che ci stiamo prendendo cura, che non c’è anaconda che tenga davanti al nostro amore per loro. Ne faremo adulti sicuri e disposti a loro volta a proteggere ed ascoltare i bisogni e le aspettative biologiche dei loro simili, siano essi piccoli o grandi.

Per conciliare almeno un po’ le grandi richieste dei nostri ritmi di vita e sociali possiamo provare l’esperienza del babywearing e sostituire con una fascia colorata l’utilissimo mantello peloso di mamma e papà scimmia, a cui i cuccioli potevano aggrapparsi. E arrivare a dare disponibilità finché possiamo, finché riusciamo. Un cucciolo ascoltato è un cucciolo che ascolta.

In bocca al lupo (ed è proprio i caso di dirlo stavolta! )

(Veronica)

 

Vuoi approfondire? contattami pure per mail purocontatto@gmail.com o su whatsapp al 349.588.9362

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La paura del contatto

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Cosa posso scrivere, io, come mamma, come consulente per l’allattamento, a proposito del tema del contatto con il proprio bambino?

C’è qualcosa di nuovo di cui posso parlare, o c’è qualcosa di già appurato, ma ancora da approfondire? O forse è meglio che parli solo della mia esperienza come mamma?

Quello che è sicuro è che, se scelgo di parlare solo come mamma, non posso evitare di parlare anche di ciò che ha significato per il mio maternato la scoperta e lo studio della fisiologia dell’allattamento e di tutti i temi ad esso collegati, che ho appreso nel mio cammino per diventare consulente.
Sono sempre stata una persona molto amante delle coccole, ho sempre amato il contatto fisico con le persone che amo.

Quando è nato il mio primo bambino, mi è quindi venuto naturale coccolarlo, tenerlo in braccio il più possibile. Il problema è sorto quando questo mio modo di sentire si è scontrato con le opinioni di alcuni. “Lo vizi” era, ovviamente, quella più quotata.
Rispondevo che, se non lo avessi coccolato mentre era piccolo, difficilmente avrei potuto farlo una volta cresciuto. “Non credo che a vent’anni vorrà essere tenuto in braccio dalla mamma, quindi è meglio che ne approfitti adesso”, rispondevo.

Ma quando le opinioni sono diventate sentenze e presagi di sicuri danni, provenienti, questa volta, da “fonti autorevoli”, ecco che ho vacillato. Di giorno sì e di notte no.

Come ho potuto dare ascolto a queste idee, me lo chiedo ancora. Credevo di avere un’intelligenza nella media, ma devo dire che in quel periodo il mio spirito critico, la mia capacità di discernimento e la mia stessa esperienza personale di bambina coccolata e tenuta, a volte, nel lettone, erano completamente svanite.

Quando è nato il secondo figlio e le mie conoscenze si sono ampliate, anche la mia forza di volontà e sicurezza in me stessa sono cresciute di pari passo.
Dove altro poteva stare, il mio bambino, se non in braccio a me? Dove altro poteva dormire, se non con i suoi genitori?
Uscita da poco da un’esperienza di notti insonni passate a camminare per casa o seduta in poltrona (ebbene sì, non chiedetemi perché, ma ho dato ascolto ad un libro che diceva che dormire nel lettone avrebbe causato danni… ma sul perché dormire in poltrona o in giro per casa in braccio alla mamma non causasse gli stessi danni, non ci avevo mai riflettuto), ritrovarmi ad essere travolta dagli ormoni dell’allattamento e scivolare in un sonno completamente rilassato col mio bambino sulla pancia, era un’esperienza nuova e meravigliosa.

E che dire, poi, dello svegliarsi e vedere la faccina sorridente del tuo piccolo, che ti guarda come se avesse visto la cosa più bella del mondo? C’è qualcosa, in tutto l’universo, che potrei preferire al sorriso del mio bambino? Al suo sguardo innamorato e fiducioso? Al profumo della sua pelle, al sapore del suo leggero sudore, quando lo ricopro di baci?
Cominciare una giornata così, ripaga di qualsiasi cosa. E quando, divenuto un po’ più “ingombrante”, la notte a volte non riuscivo a riprendere sonno subito perché un po’ scomoda, anche allora quei momenti di silenzio, di pace, di pausa, erano un modo per trovare il tempo di riflettere, programmare, ripensare, assaporare… tempo che, durante il giorno, con due bambini, non è facile trovare.

Il proseguimento naturale di tutto questo è stato l’arrivo del terzo bambino, il quale ha potuto usufruire anche della fascia, cosa che fino ad allora non ero riuscita a trovare. La mia schiena gliene sarà eternamente grata, ma, soprattutto, ha permesso a me stessa di soddisfare il mio essere una mamma “ad alto contatto”.
Sì, perché non è solo il bambino ad avere bisogno del contatto con la mamma!
Anche la mamma ne ha bisogno, è un bisogno reciproco.
Io ne avevo bisogno.
E tutto questo mi ha aiutato ad essere una mamma migliore, più attenta, meno stanca e meno nervosa.
A volte, quando lavoro con le mamme, capita che un allattamento sia recuperato semplicemente incoraggiando la mamma a stare a contatto col suo bambino più a lungo possibile.

Ma il contatto fa paura. Ci rende totalmente parte della persona che tocchiamo. Diventiamo tutt’uno con lei; siamo indifesi, scoperti, totalmente disponibili. Siamo noi stessi.
Il contatto fisico ci fa entrare in una relazione più profonda con l’altro. In una dipendenza di affetti.
Forse proprio per questo è tanto osteggiato.

Crescere generazioni di uomini e donne incapaci di entrare in armonia con l’altro, incapaci di lasciarsi andare all’affetto, all’empatia, al mettersi a nudo indifesi uno di fronte all’altro è, secondo me, un ottimo modo per creare società chiuse da governare senza problemi e pronte da mandare in guerra contro il primo “nemico” di turno.

Ma chi è abituato a guardarsi negli occhi, a sentire il calore del corpo dell’altro, a godere delle sue carezze, davvero riuscirà a vedere nell’altro un nemico da abbattere, piuttosto che una ricchezza da conoscere?

(Paola)

Gli esperti di Puro Contatto: Paola Mazzinghi

Sono consulente professionale di allattamento IBCLC (International Board Certified Lactation Consultant), abito con mio marito, tre figli e… una gattina in una frazione a pochi passi da Firenze, attaccata al pese da una manciata di case e circondata dalla campagna

Ho sofferto molto quando l’allattamento del mio primo figlio non è andato come speravo e ho quindi deciso che avrei dedicato il mio tempo a fornire le informazioni corrette a tutte le mamme che desiderano allattare, affinché non capitasse loro quello che era capitato a me.

Ho preso il diploma scegliendo di proseguire ed approfondire un percorso di studio e volontariato lungo 15 anni ed iniziato con la nascita del mio secondo bambino nel 1997.

Si sente spesso in giro che allattare è naturale, che tutte le mamme hanno il latte, che fa parte della nostra natura e quindi tutte possono allattare. Ma non si racconta che possono esserci problemi di avvio o di gestione dell’allattamento più o meno consistenti. Così quando si presentano, i genitori non sanno che sono problemi arginabili e superabili. Spesso anche molti operatori che si occupano di nascita hanno una formazione superficiale sull’allattamento e non sanno come sostenere le famiglie in modo adeguato ed efficace. Essere consulente professionale di allattamento vuol dire andare a colmare questo vuoto di informazioni e sostegno e permettere alle mamme che desiderano allattare di farlo nel modo più dolce e sereno possibile.

Personalmente, credo davvero che allattare i miei bambini mi abbia aiutato ad entrare in sintonia con loro, a fidarmi di loro e di me stessa. E che questo possa accadere con ogni mamma, di pancia o di cuore.

Contatti: 338 147 8828

paolamazzinghi@allattamentoibclc.it

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“Questa casa ora ha anche un tetto”

IMG_3786Scrivo di getto, dopo che una cara amica mi ha segnalato questo articolo.

L’ennesimo articolo inutile e dannoso.

Come ne vengono scritti quotidianamente sui temi più cari ai genitori, ovvero quelli riguardanti la loro relazione con i loro figli.

In breve questo articolo, pur fregiandosi di riferimenti importanti come le citazioni da E. Weber su cui si dichiara concorde, parlando di babywearing, insinua il dubbio che ci siano derivazioni patologiche del portare.

Quello che rimane al lettore medio è “con ‘sta roba del portare alla fine le mamme patologiche frenano lo sviluppo dei bambini perchè non li lasciano andare”.

Mille altri articoli così sono stati scritti sull’allattamento prolungato, sul cosleeping etc.

Si diffonde il sospetto che il mondo sia pieno di mamme “patologiche” che prolungano il cordone ombelicale relazionale con i figli per misteriose carenze e morbosità fino alla maggiore età di questi ultimi. E, guarda caso, si tratta sempre di mamme che hanno una buona relazione fisica con i loro bambini.

Ecco, lasciatemelo dire, non è vero.

E questa volta sono davvero arrabbiata.

Perchè io rispetto e valorizzo ogni scelta genitoriale, ma quello che non tollero sono i luoghi comuni e le parole dette a sproposito che creano un orribile clima intorno alle famiglie.

Quindi uso questo mio piccolo spazio per rispondere all’articolo in questione e a tutti gli articoli sullo stesso tono che non smettono di essere scritti.

I bambini sono persone.

E sono persone con carattere definito, con esigenze chiare e molta consapevolezza sui propri bisogni.

L’essere umano è un mammifero.

Ha bisogno di contatto, di scambio tattile, di presenza.

Questo bisogno ad un certo punto, specie se vi si è risposto con competenza e positività, è destinato a sparire. Il percorso che va dalla nascita del bisogno – che corrisponde con quella del bambino – alla sua scomparsa è spesso ben chiaro ad entrambi: bimbo e genitore.

É certamente chiaro dal momento in cui bimbo e genitore sono in sintonia, sia quale sia lo stile che hanno deciso di seguire.

Nessuno forza nessuno.

A volte i bimbi grandi chiedono di essere portati, di essere allattati, di dormire nel lettone, di essere massaggiati. Ma questo non significa che i genitori hanno creato dipendenza nei loro figli con il loro “atteggiamento morboso” o con la loro “patologia”. Significa che quei bimbi sentono quel bisogno ed hanno sviluppato una grande competenza che permette loro di identificarlo e di esprimerlo in una richiesta.

Una mamma che allatta un bimbo grande o che lo porta in groppa non è una squilibrata con chissà quale carenza affettiva o relazionale che soddisfa approfittando della creatura.

É solo una mamma attenta, che ha deciso di rispondere fino a quando se la sente in modo positivo ai bisogni espressi dal suo bambino. Che ha deciso di fidarsi del suo bambino e della sua capacità di leggere le proprie esigenze.

Queste mamme, questi papà sanno accogliere e sanno lasciare andare. Hanno solo la pazienza utile a rimandare il momento a quando tutti sono pronti. Queste mamme, questi papà stanno costruendo con attenzione l’indipendenza dei loro bambini. Ne stanno facendo persone sicure e competenti, LIBERE di scegliere e di chiedere sostegno.

Queste mamme e questi papà non telefoneranno dieci volte al giorno ai figli trentenni perchè stanno offrendo il loro accudimento adesso che è il momento.

Ma chi ha scritto questo articolo ha una vaga idea di cosa significhi tentare di legare una fascia con un bimbo che non vuole? Un bimbo grande si porta sulla schiena: perchè non provare a legare sulla schiena prima di pensare che potrebbe essere possibile costringere un bambino a stare in groppa?

I bimbi portati sanno esattamente quando hanno bisogno di essere portati e quando hanno bisogno di camminare.

Due anni e mezzo fa, in un momento di grande trambusto familiare (ci eravamo trasferiti in un’altra casa e stavamo preparando un viaggio che ancora non sapevamo se sarebbe stato un viaggio o un’emigrazione), la mia bambina di allora tre anni e mezzo chiedeva spesso di venire in groppa.

Un giorno camminavamo sotto la pioggia con l’ombrello e lei ad un tratto abbracciandomi dalla schiena disse “che bello, mamma, ora questa casa ha anche il tetto!”.

Lei, a quasi quattro anni, aveva fatto della mia schiena, della nostra fascia il suo punto fermo dal quale vivere quella situazione così disorientante con la sicurezza di cui aveva bisogno per essere serena.

A distanza di due anni e mezzo, di nuovo il momento è complicato nella nostra vita. Adesso è il piccolo, che ha la stessa età che aveva la grande allora, a chiedere di essere portato spesso.

Io ora lo so perchè, me lo ha insegnato la mia bambina: perchè la schiena è un punto fermo, sicuro, una base da cui guardare il mondo con più fiducia.

E la grande, che è qualche passo avanti nella strada della vita, adesso è al mio fianco che sostiene il fratellino.

E che a volte mi chiede di massaggiarla, perchè sa che le fa bene se si sente di aver accumulato troppa tensione o emozione.

Smettete, vi prego: smettete di considerare la pelle qualcosa di cui aver paura. Smettete di pensare che le mamme con una buona relazione fisica coi loro bambini siano potenzialmente patologiche o egoiste o che vi scarichino frustrazioni da adulto. Smettete di pensare che i bambini siano bambole in balia di donne sull’orlo di una crisi di nervi.

I bambini sono persone e, se li lasciamo liberi di leggere e di esprimere i propri bisogni, sicuri che avranno una risposta sincera ed empatica, saranno persone competenti, libere e sicure.

(Veronica)

Prendersi il tempo e lo spazio (memento a me stessa)

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Siediti. Attendi.

Riformula i tuoi ritmi per combaciare con il battito del cuore.

Tum-tutum. Tum-tutum.

Questo è il ritmo che loro conoscono. Questo è il ritmo che permette di riuscire.

Libera i pensieri, lascia stare il domani. Ci saranno momenti in cui occuparsi del mondo, magari tra pochi istanti. Ma ora no, stai qui.

Piano, piano ecco la punta rosea della lingua si mostra lentamente.

Osservala, ti dice molto.

Ogni dettaglio è importante.

Ti dice che è questo il momento giusto, il momento del latte. E che sia fame, sete, bisogno di succhiare, voglia di odori e sapori confortanti, che differenza fa? È questo il momento giusto.

Piano, piano una manina si appoggia al labbro che l’avvolge, la succhia avidamente.

Osservala, ti dice molto.

Ogni dettaglio è importante.

Ti dice che sta iniziando un’urgenza, all’orizzonte la tempesta. E che belle parole son già state scritte su quella tempesta!

Tempesta che convive con un’espressione buffa che distrae facilmente. Non attendiamo la pioggia. È ancora il momento giusto. Tra pochi istanti sarà tardi, sarà disperazione e fame.

Asseconda. Non importa se hai altro da fare. In questi mesi devi essere qui.

Non è servitù, è il momento dello studio.

E studiare lo sai fare, lo hai sempre fatto. E quelle notti, quei giorni prima delle interrogazioni o degli esami eri tutta te stessa lì. Presente.

Siilo ancora. È il momento dello studio, ora è che si impara a conoscersi.

Non è servitù, è avere obiettivi definiti.

Ecco che scende sul petto, la bocca si apre. Osserva le labbra, ascolta il tuo corpo e le sensazioni. Non dev’esserci spazio per il dolore.

Guarda bene il suo sguardo, se apre gli occhi. Dimmi cosa vedi.

Calma, appagamento, soddisfazione. Il segnale è stato intercettato e compreso. Anche di qua, in questo mondo così ignoto e grande da far paura la comunicazione è possibile.

Fiducia.

Amore. Last but not last. Amore infinito.

Includi chi ti è intorno in questo percorso. Con calma, senza pretesa di comprensione immediata. Specie per i più piccini a volte è difficile.

Spiega a cuore aperto, rilassa la pancia, il bacino. E spiega.

Spiega che devi essere lì e che questo non rende meno importanti le altre persone, le altre cose. Spiega le ragioni profonde. Non lasciare niente di non detto, di sottinteso.

Spiega perchè è importante per tutti.

Adesso la fascia.

Non prima, prenditi il tempo.

Il mondo chiama, si sa. A volte chiama che spezza il cuore. Ma attendi.

Tum-tutum. Tum-tutum.

È importante il tempo, è importante lo spazio. Ancora non è tempo di fare altro contemporaneamente e lo spazio non può escludere braccia e attenzione totale. La fascia non è ancora lo spazio per allattare.

Ma adesso sì, prendi la fascia.

Concentrati e, ancora,  prenditi il tempo. Non cercare sempre la via più breve, più facile, più repentina.

Senti il tessuto scorrerti tra le dita. Lascia che la tua attenzione sia attirata dalla sensazione della stoffa. È morbida. Ha già portato qualcuno.

Ancora un po’ oltre. Profuma. No, non è l’odore di bucato è un odore più profondo. Profuma di te e di un piccolo corpo amatissimo. Ed ha l’odore anche di chi ormai avvolge solo ogni tanto.

Stai ancora in ascolto mentre muovi le mani, le braccia, mentre ti avvolgi e avvolgi quella schiena inarcata su sé stessa, elegante come certe conchiglie.

Senti cosa racconta. Ti dice perchè il suo magico odore resiste all’acqua e al sapone. Lo salva il simbolo e, ancora, l’amore.

Chiudi il nodo. Con attenzione. Non un nodo qualsiasi. Un nodo che quasi non si sente e che si scioglie facilmente facendo convergere i lembi.

È così, vedi, che sono i nodi d’amore, i legami che cerchi: resistenti ma discreti, sicuri ma facili da sciogliere venendosi incontro.

Ricorda la lezione del nodo.

Ricorda la lezione del tessuto, non scordare i simboli.

Ecco. Adesso puoi tornare al mondo. Puoi anche affrettare il passo e distrarre il pensiero per un po’.

Puoi abbracciare e cullare altri.

Puoi seguire, aiutare, sostenere.

Puoi pensare a te, leggere, passeggiare, parlare con qualcuno.

È il momento del mondo, ma con rispetto.

A tenere il ritmo adesso c’è il titolare in persona: là dentro, il sonno è cullato dal battito del cuore, vicino, vicino.

Tum-tutum. Tum-tutum.

Dedicato a me, ogni volta che ho troppa fretta. Dedicato a me ogni volta che incontro una mamma ed il suo bambino.

(Veronica)

Poche dritte sulla scelta del supporto e sull’allattamento in fascia.

La fascia lunga, morbida o rigida che sia, è sicuramente lo strumento più indicato per i neonati. Per i primi mesi sarebbe bello forse non scegliere la praticità o la rapidità d’uso quanto qualcosa che ci aiuti ad entrare nel “ritmo” oltre che a portare i nostri bambini nel modo più contenitivo, corretto, sicuro ed accogliente. Anche nella scelta delle legature è utile scegliere a seconda della fase di sviluppo del bambino. Esperimenti e nuove scoperte in fatto di legature avranno spazio più avanti. Sembra difficile ma in fondo non lo è. Prima di abbandonare o di propendere per un supporto più “facile” provate a contattare un professionista del settore.

Allattare in fascia si può ma non è detto che si debba.

Vorrei sfatare intanto il mito della posizione “a culla” per l’allattamento.

La posizione a culla è una posizione riservata ai neonati molto raccolti e solo nelle prime settimane. È corretta se il bambino sta a pancia in su, con il fianco a contatto con il petto del portatore. Il supporto più adatto a questa posizione è la fascia morbida (più comunemente nota come “elastica”) perchè il  tessuto cedevole non esercita molta pressione sul corpo del bambino e quindi non rischia di comprimere le anche o il torace.

Per ciucciare in questa posizione il bambino è costretto o a girare la testa verso la madre (e questo pregiudica l’attacco) o a girarsi verso la madre (e questo provoca la perdita della posizione fisiologica rischiando di comprimere troppo l’anca o il torace).

La posizione in cui si può allattare è quella classica a ranocchietto, verticale.

Per farlo, è necessario far scendere la legatura fino a permettere al bambino di afferrare il seno.

Bisogna, perciò, fermarsi e sedersi perchè una legatura così bassa non è sicura per la schiena del bambino (il tessuto sarà più molle e quindi non più contenitivo né sostenitivo e la schiena si “accartoccerà” facilmente). Non è neppure fisiologica per l’apertura delle anche perchè le gambette si troveranno ad altezza pancia del portatore e quindi sollecitate ad un grado di divaricazione eccessivo. Infine non è sana per il portatore perchè sposta troppo in avanti il baricentro.

Allattare in questa posizione è utile per “sfruttare” il sonno da sazietà per riprendere le proprie attività interrotte semplicemente ritirando su la legatura senza dover “sballottare” troppo il bambino. È però importante che l’allattamento sia già avviato e che la competenza dell’attacco sia già acquisita.

Anche portare molto nelle primissime settimane può essere ragione di difficoltà nell’allattamento, specie in caso di bimbi molto sonnolenti o con crescita lenta: il contatto favorisce la rilassatezza ed il sonno e quindi può rischiare di dilatare il tempo tra una poppata e l’altra. Osservare i nostri bambini e prenderci il tempo e lo spazio per conoscersi è essenziale anche per iniziare pratiche indubbiamente sane e meravigliose come il babywearing.

Gratitudine…

Ringrazio i miei bimbi e tutti i genitori che ho incontrato per la prima parte di questo articolo.

Ringrazio, per la seconda parte di questo articolo, la Scuola del Portare che mi ha fornito una solida base di conoscenza e tutte le colleghe (non solo della mia scuola!) che ogni giorno la arricchiscono con le proprie competenze e riflessioni.

è difficile…

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Oggi noi mamme e future mamme leggiamo molto. Leggiamo libri, riviste, siti internet. Ci scambiamo domande su forum e social network. Un lavoro certosino di informazione. Non sempre professionale, non sempre affidabile ma comunque informazione.

Ed allora perché ci troviamo quasi tutte impreparate davanti alle difficoltà dei primi tempi post-nascita?

E parlo di condizioni fisiologiche, senza aggravanti di salute del bambino o della madre.

Una mamma e suo figlio, finalmente abbracciati, e un mondo di piccoli drammi che, saranno gli ormoni, la stanchezza o altro, sembrano e divengono enormi.

E saranno di certo gli ormoni e sarà di certo la stanchezza ma non sono i soli elementi che danno origine alla sensazione che il primo mese di vita del bambino sia “durissimo” per tante mamme.

Sembra tutto difficile e durissimo perchè abbiamo tante aspettative e poca esperienza.

Allattare, coccolare, tenere, prendersi cura di un cucciolo non è facile.

O meglio, sarebbe facile, se avessimo ancora il nostro istinto, se vivessimo in una comunità di compatta e coesa in cui il crescere bambini fosse interesse comune, se potessimo osservare l’esempio di altre mamme mammifere (donne ma anche solo gatti, cani, mucche, pecore e via dicendo).

Sarebbe facile perchè non avremmo aspettative ma certezze. Sarebbe facile perchè abbiamo in noi tutto quel che ci vuole e lo sapremmo già per il fatto di vederci rispecchiate negli altri.

Ma viviamo in una società che ha destrutturato i clan familiari, che ha raso al suolo le nostre competenze biologiche rendendoci dipendenti dall’andamento del mercato e dalle sue trovate, che ci ha allontanati sempre più dai nostri simili, che centellina la convivenza con altri animali sottomettendola spesso al processo di “civilizzazione” di quest’ultimi.

Ad oggi, una donna ignora il proprio potere di donna e di madre. Il suo potere squisitamente e semplicemente biologico di dare alla luce, nutrire e crescere un cucciolo. Anche il papà ignora questo potere ed il proprio di sostenere, di bastare, di proteggere.

Mamma e papà ignorano i loro talenti e non hanno nessuno intorno da cui trarre ispirazione. Figli ormai del latte artificiale, raramente trovano in famiglia esperienze di allattamento condivisibili. Generazione di girelli, passeggini, lettini a sbarre, indipendenza precoce, raramente trovano la serenità che dovrebbe accompagnare il contatto specie nei primi mesi di vita. Ex bambini cresciuti in appartamenti non hanno mai visto partorire una gatta o una mucca. Ed anche i bimbi di campagna raramente avranno visto un vitello poppare dalla sua mamma, che la produzione non perdona.

Non abbiamo spunti di creatività né punti di riferimento. Non abbiamo memoria diretta di maternage né pratica su figli altrui, magari i “piccoli” di famiglia.

In una coppia media chi la fa da padrone è il timore.

Timore di essere all’altezza, di fare le scelte giuste, di riuscire.

E così alcune mamme approdano all’informazione. E si informano tanto, leggono tanto. Certo questo darà a loro uno strumento in più per valutare le proprie difficoltà ma al contempo crea un’ingiustificata aspettativa di idillio.

Partorire è naturale e tutte le donne sono fatte per sopportare i dolori del parto.

Tutte hanno il latte, allattare è facile.

Cambiare i pannolini? Un gioco da ragazzi: c’è chi addirittura il pannolino nemmeno lo usa e legge i segnali dei neonati.

Abituarsi al ritmo sonno-veglia? Un procedimento naturale.

Intessere reti d’amore fisico, di contatto costante, come ogni neonato chiede? Un percorso spontaneo e meraviglioso.

Ecco io oggi lo scrivo: non è vero.

Siamo cambiati. Siamo meno forti, meno sensibili, meno supportati. Abbiamo cambiato le nostre competenze e ci siamo sempre più allontanati dal nostro essere mammiferi. Siamo maestri di sguardi e parole, totalmente disabituati alla pelle e al suo linguaggio.

Quindi non è facile.

Promuovere la naturalità, l’allattamento al seno, il contatto facendo sembrare tutto questo il Paradiso terrestre è il risultato di ottime intenzioni per nulla realistiche.

Quante mamme confidano “è veramente dura, i primi tempi è veramente dura”. Quante mamme si trovano spiazzate da un ingorgo, una mastite, da un riflesso di emissione troppo forte, da un seno troppo turgido, da ragadi e quant’altro. Perchè l’unico messaggio che arriva è che allattare è facile, è naturale.

Quante donne si trovano a dover fare i conti con una relazione fisica ingombrante a cui non erano pronte perchè la pelle è sempre più reclusa a pochi momenti di libertà vigilata.

E non è facile relazionarsi con un essere vivente che dipende totalmente da noi, anche se sembra evidente che un neonato lo sarà.

E non serve dire che è “istinto” che è “naturale” quando viviamo perlopiù relazioni a base intellettuale.

Quanti genitori si sentono soli perchè non c’è la tribù che accoglie, supporta e consola ma solo un lungo elenco di regole o parametri in cui rientrare, per passare positivamente al vaglio di noi stessi e degli altri. Quanti genitori si trovano soli perchè non erano pronti al pianto dei loro figli e dei loro bambini interiori, risvegliati come per magia dall’evento così scardinante che è la nascita.

Diciamolo che niente di ciò che riguarda i neonati è facile. Diciamolo e spieghiamolo con pazienza, empatia e positività perchè la consapevolezza degli ostacoli è il primo passo giusto per superarli con serenità, perchè i genitori possano circondarsi preventivamente di figure di riferimento serie ed affidabili, perchè possano ricreare una piccola tribù pronta ad accogliere non solo il bimbo che verrà ma i genitori che nasceranno insieme a lui.

Perchè è tutto difficile, sì. Ma ne vale la pena.

(Veronica)

“tu, donna, partorirai con dolore…”

photoQuesto articolo potrebbe parlare di parto ma sarebbe troppo scontato. Parlerà, invece di allattamento e di come il dolore venga mal interpretato alla luce di una cultura che ha un rapporto davvero complesso e ormai quasi incontrollato con il rifiuto categorico di questo stimolo.

Abbiamo perso quasi totalmente le competenze sul dolore, la capacità di distinguere tra le tipologie di dolori, di rispondere al dolore in modo costruttivo.

Andiamo con ordine.

Esistono due macrocategorie di dolore: il dolore fisiologico ed il dolore patologico. Pur essendo due tipi di dolore molto diversi l’uno dall’altro, hanno in comune la sensazione negativa che creano in chi soffre.

Il dolore fisiologico  (e già so che qui pioveranno polemiche) è il dolore necessario ad un momento evolutivo o di grande cambiamento, come possono essere il dolore di un dentino che nasce in un lattante, il dolore della pancina di un neonato alle prese con l’apprendimento della gestione degli sfinteri o il dolore del parto.

Il dolore patologico è il dolore necessario ad accendere, in chi soffre, un campanello d’allarme che segnala che qualcosa non sta andando per il verso giusto: il dolore di un dente cariato, una forte emicrania, il dolore di un dito rotto o un mal di stomaco.

Nella loro essenza, entrambi i tipi di dolore non andrebbero “quietati” bensì ascoltati, cosa che, oggigiorno, non passa per la testa di nessuno. Questa mia affermazione non contiene giudizi: è la naturale conseguenza dell’indebolimento progressivo dell’uomo e dell’abbassamento della soglia di sopportazione del dolore provocati (per fortuna?) dallo sviluppo tecnologico e dalle conquiste farmacologiche.

Quindi, se da una parte siamo in grado (almeno qualche volta) di “ascoltare” il dolore patologico senza dover continuare a soffrirne (es. “mi fa male un dente, capisco che ho un ascesso quindi vado dal dentista ma nel frattempo mi prendo un antidolorifico”) che mi pare un passo sicuramente importante nel miglioramento della condizione umana, d’altra parte qualche perplessità mi riservo di averla sulla capacità di “ascoltare” un dolore fisiologico e di comprenderlo seppur mettendolo a tacere. Il famoso dolore con cui le donne partoriscono da maledizione biblica, ormai ha ben pochi “ascoltatori” sia tra chi lo sopporta (che troppo spesso si concentra sulla propria grandezza di spirito), sia – a maggior ragione – in chi lo aggira o elimina farmacologicamente.

Il suono terribile della stessa maledizione biblica, forse ci ha fatto culturalmente scordare la funzione primaria e originale di quel dolore: il corpo che cambia, la vita che cambia per mai più tornare la stessa, la divisione perenne del cuore che in quel preciso momento cessa di battere solo all’interno del nostro petto di mamme per andarsene – dopo poco – in giro per il mondo con un paio di scarpette da ginnastica numero 21.

In fin dei conti una maledizione non può avere aspetti positivi. Ma focalizziamoci sull’allattamento.

Sulla doppia reazione al dolore (rifiuto/eroica sopportazione) appena considerata, vorrei fermarmi per chiarire qualche punto sui dolori che l’allattamento provoca in molti casi.

Cominciamo con il dire che l’allattamento non deve provocare dolore. Se lo provoca è del tipo patologico, ovvero indice di qualcosa che non sta andando per il verso giusto. Siamo in grado di fare questa affermazione con totale serenità poichè, sfrondato da tutti gli aspetti affettuosi, emotivi, intellettuali etc, e seppur diversissimo da tutte le altre, l’allattamento è una funzione fisiologica e le funzioni fisiologiche provocano dolore solo se gli apparati che vengono ad interessare non funzionano in modo ottimale (pensiamo a cistiti, bruciori di stomaco etc)

L’unica risposta materna sensata a questo tipo di dolore è quella di interrogarsi sul perchè lo si sta provando.

L’esempio più classico (ma non l’unico!) sono le “ragadi”. Si tratta di ferite al capezzolo più o meno profonde e davvero molto dolorose, nonché il campanello di allarme che ci dice che il piccolo sta poppando in modo errato. Abbandonare l’allattamento per via della presenza di ragadi o accettarne la dolorosa esistenza con spirito di “donnachesisacrificaperlaprole” sono risposte ad una domanda inesistente. Infatti il nostro corpo non ci chiede “Ehi, tu, mamma! Sei disposta a soffrire per la causa nobile del benessere dei tuoi figli?” ma  “Ehi, tu, mamma! c’è qualcosa che non sta funzionando, riesci ad identificarne la causa?”.

Così come nessuno al mondo smette di nutrirsi per un bruciore di stomaco ma provvede a curare la propria alimentazione, così chi soffre di dolori legati all’allattamento dovrebbe provvedere a curarne i dettagli.

Nessuno è, nè dev’essere, ovviamente, costretto a provare dolore.

Ma, se la scelta di vivere il dolore fisiologico ha sicuramente senso “formativo” (perchè, come si è detto, si tratta di un segnale di crescita che apporta forza e cambiamento), quando si tratta di dolore patologico non c’è ragione di sopportarlo “eroicamente”, così come non c’è ragione di esserne terrorizzati al punto di abbandonare radicalmente tutto ciò che a che fare con quella parte del corpo.

Una donna stupenda, da pochi mesi eso-mamma, che ho avuto la fortuna di affiancare nell’avviamento un po’ burrascoso (come tanti) del suo allattamento, mi ha detto oggi: “Scrivi qualcosa sul dolore dell’allattamento alle mamme. Che non mollino subito, perchè adesso anche io so che, davvero, è meraviglioso”.

Ecco qua, quindi, il mio appello affettuoso non solo a non mollare ai primi sintomi di dolore in allattamento, ma a non accettarli come “naturali” – perchè naturali non sono – e allo stesso tempo di non metterli a tacere con gli svariati e sempre nuovi mezzi che il mercato offre: la risposta a quella domanda che quel dolore vi sta ponendo sta in voi e nel vostro bambino. Cercate qualcuno che sappia leggerla e spiegarvela ed il gioco è fatto.

Veronica

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