Il peso di un bambino sulla schiena

Qual è il peso di un bambino sulla schiena?

È, di certo, il peso più sfuggente, seppure fermo e fissato tra il collo e il bacino. 

Pesa come i macigni della distanza subita in passato.

Pesa come l’adulto che lo porta, come quel bambino che nessuno ha portato tempo addietro.

Pesa come la responsabilità di stare in equilibrio e, ancora di più, come quella di costruire equilibri nuovi.

Pesa come la presenza del corpo nella nostra vita e nella nostra cultura. Una presenza ingombrante di piombo verso gli inferi. Il corpo dimenticato, bistrattato, umiliato, denigrato. 

Pesa come l’essere genitore, come il dibattersi tra pregiudizi culturali, mancanza di stato sociale, disgregazione familiare, come fossero le paludi della solitudine.

Pesa come l’ottica di Sparta, di recidere le radici per creare guerrieri obbedienti e sperduti mossi dal bisogno di appartenenza. 

Pesa come la volontà di cambiare, di recidere le catene, di dare ciò che non abbiamo avuto, di essere ciò che non abbiamo vissuto.

Pesa come una girandola o un aquilone, mossi dal vento in ogni piccolo soffio. 

Pesa come lo stupore di scoprire nuovi orizzonti.

Pesa come le dita leggere sulla pelle, nel tocco più sottile, nell’esplosione di vita che innesca.

Pesa come una piuma, come le piume delle nuove ali che improvvisamente ci sentiamo spuntare sotto tre strati di stoffa colorata.

(Veronica)

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Il tempo sprecato

Un paio di settimane or sono, ho fatto una cosa inutile.

Ho potato con cura le piante dei pomodori. A fine stagione.

E l’ho fatto sapendo che fosse inutile. 

Il mio piccolo orto, meglio noto ai più come “St’Orto”, è stato il mio primo esperimento di agricoltura. Forse è anche inutile specificare che non sono un’agricoltrice né una giardiniera: non so nulla di piante, di come crescono, di come si posizionano per dare più frutti, di come si devono o non devono concimare, di come sconfiggere parassiti o allontanare insetti scrocconi.

Semplicemente, mi piace l’odore della terra, mi emozionano le foglie che crescono, che si allargano, i fiori che sbocciano, i frutti che si colorano giorno dopo giorno. Per questo il mio orto è sempre stato St’orto: ho seminato a caso e con scarse aspettative e poi piano, piano ho cercato di gestire alla meonopeggio il risultato. Perciò è cresciuto St’Orto. E mi piaceva tantissimo, così storto com’era, così stupidamente incasinato, casualmente rigoglioso, inevitabilmente poco produttivo.

St’Orto è cresciuto durante il Lockdown.  Mi ha consolata, distratta, mi ha fatto compagnia. Mi ha detto, in ogni momento, che la vita non si sarebbe fermata e che le mie mani erano capaci di creare, sostenere, sistemare. Insomma, tra me ed ogni pianta di St’Orto è nata una sorta di relazione importante, una specie di affetto profondo.

Così, quando ho visto i pomodori pieni di foglie e rami secchi, mi sono messa lì per una mattinata intera e li ho tagliati. 

Sì che lo sapevo che era un’operazione inutile, che sono piante stagionali.

Ma, mentre tagliavo, pensavo soltanto che non meritavano di seccare lentamente senza di me, senza che mi prendessi maldestramente cura di loro. Il risultato mi ha soddisfatta molto: le piante erano verdi e nella loro fragilità sembravano giovani di belle promesse. 

Certo se coltivare fosse stato il mio mestiere non mi sarei potuta permettere una tale dispersione di tempo ed energie. 

E questo mi ha fatto pensare al perdere tempo. A quanto conta, nella cura, il tempo lasciato passare senza obiettivi, senza aspettative, senza senso, senza profitto. A quanto contano, nella cura, le azioni che definiremmo inutili, sciocche, superflue, emotive.

Mi son ricordata delle parole di un’ostetrica che ho amato e amo tantissimo, al mio primo corso pre-parto: “l’infermiera o l’ostetrica vi mostreranno come si cambia il pannolino. E voi penserete che non riuscirete mai a diventare rapide e perfette come loro. Ecco, io aggiungerei che per fortuna non diventerete mai rapide e perfette come loro. Perderete un sacco di tempo in sorridere, accarezzare, coccolare, solleticare. E la magia del vostro cambiare il pannolino al vostro bambino starà proprio lì”.

Quindi stamani mi sono svegliata pensando a questo. 

In questa fredda e nebbiosa mattina d’autunno, di un anno strano che ci ha messo in ginocchio economicamente, relazionalmente ed emotivamente, in un periodo dominato dalla paura (del virus? Di come arrivare a fine mese? Di quando  come incontrare le persone che amiamo?), dall’ansia, dalla rabbia, dalla tristezza, sarebbe bello fermarsi a potare i pomodori a fine stagione. Fare gesti che non eviteranno le preoccupazioni e le paure, di certo. Che non miglioreranno i profitti né la possibilità o meno di trovarci ancora ad avere a che fare con la DAD o con il lavoro che non c’è, che non si può fare o che non paga.

Ma che un risultato ce lo hanno, garantito: ci rafforzano negli affetti, nella nostra capacità di trasmettere presenza anche da lontano, di chiamare a raccolta le nostre capacità per alimentare l’inutile amore che possiamo, che abbiamo da dare. Nel mezzo di tanto tempo morto, soffocato dalle ansie e dalle preoccupazioni, dare valore al tempo inutile della cura verso noi stessi e verso gli altri, può davvero essere spiraglio di sollievo. Mandare un messaggio o fare una telefonata a qualcuno che sentiamo importante, confortare o lasciarci confortare, abbracciare e baciare chi abbiamo vicino, dedicare a chi amiamo (nei molteplici modi dell’amore) una frase letta nel libro sul comodino, o la canzone che senti all’improvviso al mattino, raccontare una storia presa dal passato o dalla fantasia, raccontarci, ascoltare, ridere, scrivere, inventare. Fermarci ad osservare i colori intorno, il paesaggio che cambia, la luce che filtra nella nebbia.

Sono tutte cose che si leggono forse nei meme romantici sui social o che sembrano il luogo comune della mielosità. Eppure sono cose potenti, è il valore del tempo perso quello che può trasformare il giorno in un giorno importante.

Ah, dimenticavo: ieri, poi, ho tolto le piante, ormai senza vita. Conferma che il mio daffare era davvero inutile. 

Ma…qualche giorno dopo la potatura, su quelle stesse piante brillavano piccoli pomodori verdi. Che sono cresciuti quel tanto che bastava per renderli buoni, anche se non maturi.

Ed io ci ho fatto un vasetto di marmellata. Buonissima.

(Veronica)

Stiamo davvero imparando la lezione?

2c1d4841-1363-4bc9-b5ec-7d2782606459Siamo ormai sicuri che l’anno scolastico in corso, sospeso a causa dell’attuale epidemia, non terminerà dentro le aule. Tutto rimandato a Settembre, dunque. Il rebus che coltiva la preoccupazione dei genitori è costituito dal prevedere fin da ora come la scuola ricomincerà. Una commissione di esperti è infatti a lavoro per formulare le prime ipotesi a riguardo. Se per la ministra dell’istruzione Azzolina si potrà stare di nuovo dietro ai banchi solo in totale sicurezza e sulla base delle dichiarazioni del ministro della salute Speranza, la prossima fase 2 del contagio dovrà realizzarsi con estrema gradualità, risulta difficile immaginare il rientro in blocco di otto milioni di studenti dopo l’estate. Come risulta difficile pensare che, data l’età media degli insegnanti italiani, (la più alta in Europa secondo un’indagine OCSE del 2019) si possa chiedere di  tornare in classe ai docenti più anziani, poiché rappresentano la fascia di popolazione più vulnerabile al virus e verso la quale va mantenuta la tutela sanitaria. È stato detto (sempre dal ministro Speranza) che il distanziamento sociale continuerà ad essere il caposaldo di qualunque strategia di salvaguardia della salute pubblica e la scuola, per il contesto particolare che rappresenta, si adegua molto male a questa strategia. 

Gli spazi a disposizione e il numero di bambini per classe, soprattutto nei cicli infanzia e primaria, sono condizioni che non aiutano affatto, a meno che non si programmino vere e proprie turnazioni di studenti, riducendo la possibilità di assembramenti anche in fase di ingresso e uscita dalle scuole. Certo è che l’adozione di particolari protocolli sanitari, a scuola, potrebbe non evitare la psicosi da paura di contagio, considerata l’imprevedibilità dei comportamenti dei bambini che, anche se opportunamente sollecitati, potrebbero far fatica a indossare a lungo le mascherine e a mantenere costantemente la distanza di un metro.

In questo scenario complesso, la didattica a distanza (DaD), quella forma di didattica attraverso cui si stanno portando avanti le lezioni e con cui le famiglie si sono, loro malgrado, confrontate quotidianamente, potrebbe non essere dimenticata in soffitta e continuare ad essere ancora modalità ausiliaria per gli apprendimenti didattici.

Dalla conferenza stampa dello scorso 6 Aprile, tra l’altro, è chiaro come la didattica a distanza non vada più  considerata “uno strumento opzionale”.

Siamo passati dunque da un esperimento consigliato, a vero e proprio paradigma riconosciuto e ‘strutturale’ del sistema educativo, almeno temporaneamente per questa emergenza e, aggiungerei, fino a quando ce ne sarà bisogno. Non vi era senza dubbio una strada alternativa, anche se si è constatato quanto la DaD si sia realizzata in modo estremamente stratificato e diversificato nelle scuole italiane e spesso all’interno della stessa classe. Sono emersi in modo evidente e diffuso problemi legati alle differenze economiche, strumentali, linguistiche e anche alla scolarizzazione delle famiglie (che richiederebbero una trattazione a parte e dedicata).

Inoltre, ci sono stati docenti in grado di organizzarsi fin dalle prime settimane dal lockdown, avviando rapidamente un programma di videolezioni, c’è stato chi ha iniziato con le attività sincrone molto più tardi, anche un mese dopo la chiusura, chi invece, già abituato a fare lezioni in streaming (come ad esempio nel caso del regime della scuola-ospedale per gli alunni che non possono essere frequentanti a causa di problemi di salute) ha realizzato le proprie lezioni digitali senza particolari criticità.

C’è stato, inoltre, chi si è rifiutato di lavorare on line, inappellabilmente, perché non si sentiva in grado di gestire la propria didattica con gli strumenti digitali (ad esempio, sul sito di un istituto comprensivo di Roma, la dirigente ha spiegato ai genitori come la maggioranza dei docenti si fosse espressa contrariamente alla DaD). E ancora c’è stato chi per scelta etica ha deciso di non implementare la Dad, perché avrebbe dato luogo, viste le possibilità economiche delle famiglie della propria classe, ad una scuola discriminante e non inclusiva.

Motivi per i quali solo col tempo processeremo e comprenderemo sul serio se si è riusciti a dare un senso ad un anno scolastico così compromesso a causa della pandemia da Covid-19.

Ma facendo un passo indietro, cosa si intende precisamente con la DaD?

Di nota in nota, abbiamo dati sufficienti per affermare come la concepisce il Miur. Per il ministero dell’Istruzione consiste senz’altro non in una “mera trasmissione di materiali” o compiti, ma in un panel di modalità (videoconferenze, video lezioni o utilizzo di app interattive educative) che contempli “azioni didattiche” equiparabili alla didattica tradizionale. Vuol dire che le lezioni non possono consistere solo in compiti a casa, assegnati senza aver svolto, prima o dopo, una lezione vera e propria. Questa lezione dovrà chiaramente conoscere modalità comunicative diverse rispetto alla lezione in presenza, privilegiando il dialogo, la problematizzazione e le domande degli studenti. Durante questa quarantena la qualità del lavoro dei docenti si è vista indiscutibilmente, dalla primaria alla secondaria di II grado lungo tutto lo stivale, con una grande prova di resilienza e di determinazione da parte di maestri, professoresse, dirigenti e personale scolastico (eclissando spesso le rivendicazioni dei sindacati).

Credo che quando non sia stato possibile trovare un metodo collaudato di scuola on line (non era banale realizzarlo così su due piedi), ciò che ha fatto la differenza, in senso positivo, è stata la misura con cui via via i docenti hanno cercato di equilibrare in modo ragionato videolezioni, compiti a casa e scadenze.

Ciò che invece oggi lascia davvero sconcertati è prendere atto di come la scuola e soprattutto i bambini siano stati esclusi dal dibattito pubblico in questi mesi. 

La scuola sembra aver rappresentato un’appendice, un fronzolo, una parentesi opaca ammessa una tantum in conferenza stampa o in qualche riga di decreto. Nessun approfondimento mediatico, pochissime informazioni sono state sviluppate e offerte all’opinione pubblica con spunti di riflessione critica. Sul web invece tante sono state le lettere dei genitori che evidenziavano il bisogno di ascolto e di comprensione. 

L’aspetto psicologico, umano e sociale delle famiglie e dei bambini non ha mai costituito un argomento di analisi e confronto istituzionale più o meno formale, soccombendo al tema della ripresa economica, della responsabilità politica sulla gestione dell’emergenza e ovviamente del contenimento del contagio. Il focus narrativo prevalente ha riguardato solo in minima parte i cittadini, e ciò è avvenuto soprattutto in quanto lavoratori, e quindi soggetti economici.

Eppure, a mio parere, questo ‘focolare privato’ diventato ‘pubblico’, mantenendo fede con forza ad un impegno collettivo, avrebbe meritato più attenzione e sensibilità. Doveva essere valorizzato. 

Eppure i bambini insieme alle loro famiglie in una trama di vita così complessa, avrebbero dovuto trovare l’opportunità di ricostruire il loro ‘spazio’ e il loro legame col tempo. 

Eppure i bambini, sono soggetti di diritto tanto quanto gli adulti.

Lo sa bene la prima ministra norvegese Erna Solberg che già a metà Marzo tenne una conferenza stampa solo per i più piccoli, rispondendo per mezz’ora alle domande provenienti dai bambini di tutto il Paese. Una grande lezione di stile e di democrazia, rimasta tristemente isolata.

Secondo il filosofo Ernst Cassirer l’uomo è un ‘animale simbolico-culturale’ per cui produrre e fruire di segni e significati è azione radicata nella condizione specie-specifica dell’uomo. 

La narrazione aiuta, dunque, sotto questo profilo, a elaborare la propria esperienza intima in un’ottica di ri-significazione, di sguardo più ampio e di patrimonio comune, quando la si correla a quella degli altri. E allora da questo punto di vista così importante e imprenscindibile, alla luce di questo time-out epocale come quello che stiamo vivendo, tutti insieme e tutti nella stessa barca, la lezione ancora non l’abbiamo certamente imparata. 

(Federica Giuliani)

Una chiacchierata con Marco Santini, ginecologo.

Spesso si pensa che l’avere figli ci precluda  o comunque comprometta la vita sociale, le amicizie, i legami. Eppure è stato proprio grazie alla mia bambina che ho avuto modo di conoscere  un uomo illuminato, un professionista capace e sognatore: un ginecologo-ostetrico. Ma non solo. Il Dott. Marco Santini è stato un tassello determinante nella mia storia di madre con la sua sensibilità, la sua capacità di ascolto, la sua visione oltre la patologia, oltre i protocolli.

Fino a poco tempo fa lo si poteva incontrare a Careggi, durante i checkpoint di accesso all’area nascite La Margherita, oppure in corsia con i suoi modi discreti e gentili, sempre pieni di cura. O addirittura in sala operatoria con la sua perizia e la sua attenzione anche con il bisturi.

Marco Santini è il papà del Centro Nascite “La Margherita”, un’eccellenza fiorentina ed italiana, che ha suscitato interesse ed ispirazione ovunque nel nostro Paese e nel Mondo. Quasi nessuno sa come il suo nome, la sua storia ed il nome e la storia della Margherita siano connessi a doppio filo perché lui ha sempre lavorato in sordina, senza tanto clamore, senza pretese di essere al centro delle attenzioni, ma sempre guidato dalla sua cometa: la volontà ed il bisogno controcorrente di affermare il femminile nella nascita, in un periodo di grandi incertezze.

Sono passati più di 10 anni dal nostro primo incontro e oggi ho la fortuna di poterlo intervistare e di farvelo conoscere un po’ di più.c55fce6e-a754-41f5-85ff-4edacbd180ab

Veronica:  Marco, raccontami un po’ del tuo percorso: quando e perché hai deciso di diventare ginecologo?

Marco: è una storia lunga! Mi occupo di ginecologia e ostetricia dall’inizio degli anni ’80. Ho iniziato con una forte impronta chirurgica nella mia specialità, ma con il passare del tempo mi sono sempre più interessato all’Ostetricia. Ho seguito la mia visione, o meglio la sensazione di “urgenza” di valorizzare la normalità in ostetricia ed il ruolo prevalente della donna in questo evento, che troppo spesso viene trascurato. Ho fortemente voluto ampliare il dibattito fra le madri e future madri e gli “addetti ai lavori”. Così è stato naturale interessarmi anche a temi di psicologia e psicopatologia connessi alla gestazione e alla nascita. Pensare la nascita come evento sociale mi ha portato ad organizzare dei percorsi assistenziali per il parto in Ospedale come il Progetto del Centro Nascita di Careggi a Firenze.

Mi sono addentrato anche in territori culturali non medici come l’architettura, attraverso gli studi della percezione dell’ambiente da parte degli utenti e degli effetti che questo ha sulle cure, intese non solo in senso medico ma anche come il “prendersi cura”, la “care”.

Veronica: Qual è, per te, la caratteristiche fondamentale per essere un buon ginecologo?

Marco: Bè, dopo anni di esperienza, sicuramente inizierei rispondendo che la preparazione medica e specialistica è alla base dell’esercizio di questa professione straordinaria – e questo è solo apparentemente scontato. Ma oltre a questo, è necessaria una grande capacità di ascolto e di partecipazione alla vicenda della persona che abbiamo in cura. La nascita può essere un avvenimento medico ma è soprattutto un fatto esistenziale individuale e poi sociale. Affiancare i protagonisti dell’evento, la madre ed il nascituro, cercando di non rubare la scena ma garantendo al meglio possibile serenità e rispetto è un compito che richiede, oltre alle conoscenza ostetriche, equilibrio personale, maturità individuale, empatia.

Veronica: Cosa serve ad un uomo per occuparsi di nascita?

Marco: Domanda molto impegnativa.  Direi che quanto ho cercato di sintetizzare nelle risposte precedenti vale per ogni medico ed in particolare per ogni ginecologo. Avrei detto, fino a poco tempo fa, che le caratteristiche femminili delle dottoresse potevano facilitare la loro capacità empatica nei confronti delle gestanti o delle pazienti. Oggi direi che questo non è scontato, non è automatico, al di là delle apparenze. I ginecologi, uomini o donne, devono lavorare molto su se stessi per essere dei buoni medici. Gli uomini certamente hanno un compito più complesso nella elaborazione della loro identità sessuale in relazione alla professione ed alla capacità di comprensione dell’ ”altra metà del cielo”, abbandonando progressivamente stereotipi, preconcetti ed elaborando in profondità la propria storia personale.

Veronica: Ti chiamano “quello della fisiologia”, quanto ti rivedi in questa definizione?

Marco: Quello della fisiologia, quello della medicina umanistica, quello della “slow medecine”, quello che “tiene la mano alle pazienti” come mi diceva con sufficienza un cattedratico che avrebbe dovuto insegnarmi ad essere un buon medico. Di volta in volta,, ho ascoltato varie definizioni. Credo di non riconoscermi in nessuna in particolare perché la realtà e sempre diversa e molto più complessa.

Veronica: Com’è nata l’idea della Margherita?

Marco: Dopo anni di lavoro (vero lavoro con giorni e notti di sala parto) di riflessioni ed elaborazioni su quel lavoro straordinario che è assistere la nascita. Direi che l’idea è nata quando abbiamo capito in profondità concetti come l’assistenza centrata sulla donna e il “care as gift” ,il prendersi cura come dono professionale. Il Progetto architettonico del centro Nascita in se è nato rapidamente in poche settimane quando molte cose ci erano chiare. Si è trattato di portare alla sintesi ed alla massima espressione concetti da molti affrontati e dibattuti prima di noi, ma mai agiti, almeno nel nostro Paese. Portare ad un punto di sintesi un lungo dibattito fra una parte dei medici e delle ostetriche, durato tutti gli anni ’70 e ‘80  del ‘900.Dal dire al fare…questa è stata la scommessa, almeno in parte vinta.

Veronica: Quando hai pensato e disegnato la struttura del centro nascite, qual era il tuo sogno? Come avrebbe dovuto funzionare? 

Marco: La definizione della struttura architettonica è nata da una idea che ho maturato in anni di lavoro in Ospedale, pensando ad un ambiente che fosse più compiuto e più accogliente di quelli normalmente realizzati  con lunghi corridoi e stanze anonime. I disegni preliminari di questa idea li dobbiamo ad una architetta straordinaria per capacità di ascolto e sensibilità, Bianca Lepori.  Lo scopo era quello di avere delle stanze disposte intorno ad un centro dove le ostetriche potevano svolgere la loro funzione di sorveglianza ora discreta ora tempestiva. Avrebbe dovuto funzionare come un luogo accogliente e sicuro dove ogni donna che avesse voluto avrebbe potuto partorire a suo modo, esercitando potenzialità innate, in famiglia. La nascita, quando si svolge regolarmente è un fatto esistenziale ancestrale intimo, personale, privato poi famigliare che per ragioni di sicurezza si deve svolgere in Ospedale e l’Ospedale con tutte le sue capacità culturali, tecniche e organizzative deve tutelare questo evento con rispetto e discrezione. 

Veronica: Fino ad oggi, quanto del tuo progetto si è realizzato? Quanto pensi si potrebbe ancora realizzare?

Marco: L’ambizione visionaria del Progetto della Margherita era quello di realizzare un percorso della nascita all’insegna dell’accoglienza, dove un numero crescente di donne potesse trovare i vari momenti assistenziali riuniti in un luogo adatto. Dai corsi di accompagnamento alla nascita ai controlli ambulatoriali, dal sostegno psico-relazionale ai corsi di acquaticità, al luogo del parto adatto e coerente a questo percorso. Questa visione non è stata condivisa, ma direi di più capita dall’Ospedale che ha parcellizzato i vari momenti assistenziali rendendo il progetto più povero, meno rispondente agli alti standard ambiti inizialmente. Perdendo di vista le potenzialità di un modello del genere, inteso anche come laboratorio per sperimentare miglioramenti dell’assistenza e fare formazione, lo si è indirizzato ad una attività routinaria non espansiva. Con questo rispondo implicitamente anche alla seconda parte della domanda e cioè che recuperando progettualità e visione, facendo un investimento di risorse professionali adeguate e promuovendo il modello presso la cittadinanza si potrebbe non solo dimostrare la validità di questo “unicum” nazionale ma anche proporlo ad altre realtà assistenziali.

Veronica: Qual’è il ricordo più bello legato al Centro Nascite?

Marco: I ricordi naturalmente sono tanti dal lontano 1996! Intanto il gruppo di lavoro formato da ostetriche, psicologhe, neonatologi, pediatri, infermiere con i quali abbiamo investito entusiasmo ed energie nella nostra attività ospedaliera e dato vita ad un Progetto culturale sulla nascita a molte voci che poi si è concretizzato nel Centro Nascita. E poi le tante persone che in questi anni hanno vissuto un momento importante della loro vita come la nascita di un figlio, dentro una nostra idea di assistenza e l’hanno trovata bellissima! I mille episodi di ringraziamento e di gratitudine che hanno dato un valore speciale al nostro lavoro.

Veronica: Che progetti hai per il futuro?

Marco: Diversi ma direi uno su tutti: contribuire al dibattito e alle proposte per rendere migliore l’esperienza della gravidanza e del parto nella nostra città. Esperienza breve, se riferita ad una vita, ma che segna per sempre le nostre storie personali.

Veronica: Grazie, Marco…in bocca al lupo!

Per chi volesse saperne di più sui progetti del Dott. Santini o volesse contattarlo per qualsiasi bisogno o domanda, può scrivergli a dott.santini@gmail.com

Piccole storie ossitociniche: la cura e i colori

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La Cura, i Colori
Vedo rosa in più sfumature, di pelle e di stoffa;
Vedo nero, bianco, marrone scuro, marrone chiaro;
Vedo il grigio della strada e molto amore;
Vedo qualcuno che per prendersi cura di chi ama non usa solo le braccia ma anche la schiena ed i piedi con cui cammina;
La cura ed i colori non si fanno domande. Semplicemente si accompagnano, si cullano, si fondono in un’unico passo in avanti.
Oltre chi resta indietro a guardare le tonalità di pelle e si perde una giornata di sole;
Oltre chi resta indietro a chiedersi come mai, se sarà adottato, se sarà figlio di stranieri;
Oltre chi resta indietro a giudicare la quantità di amore dello stare vicini, che pare sempre si rischi di amare troppo;
Oltre chi resta indietro ad argomentare che un genitore presente e amorevole non faccia la differenza;
Oltre chi resta indietro a dividere le culture, quando siamo tutti nati per imparare;
Oltre chi resta indietro a pensare che educare i bambini sia qualcosa di tanto diverso dall’amarli indiscriminatamente.
Un’unico passo in avanti, e poi un altro.
Lasciali indietro, piccola creatura, che il mondo non vede l’ora di cambiare con te.

(Veronica)

olivia

Ringraziamenti: Grazie alla piccola O. per la speranza di un mondo migliore. Grazie a mamma e babbo per aver curato un amore così grande con il loro grande amore. E Grazie per questo scatto che mi avete regalato ❤

Piccole storie ossitociniche: intreccio, tra le mie dita, la trama del tuo sonno.

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Sirio ha quasi 8 anni e questa settimana, dopo tanta attesa, dovrà fare un piccolo intervento. Resterà solo un giorno in ospedale, è una cosa veloce. Abbiamo molto parlato di ogni cosa che succederà e lui sembra molto sereno.

Arriva il giorno.

Entriamo in reparto e lui indossa il pigiama preparato per lui. Lo vediamo che parla, parla, parla, salta, sale e scende dal letto, e chiude e apre la tenda che protegge il letto dalla vista degli altri e sbuffa e parla e salta e fa tutto di nuovo. É visibilmente nervoso. Ha dormito poco e male, non ha fatto colazione, non può bere né mangiare e tutto questo lo rende impaziente e si somma al suo nervosismo.

Iniziano a preparare i primi bambini. Lui è grande, di certo dovrà aspettare un po’ di più. Comprensibilmente hanno priorità i bambini piccoli e gli interventi più complessi. Sarebbe bello che riuscisse a riposare…ma per come stanno le cose, sembra davvero impossibile. Eppure ci provo.

“Posso farti un massaggio?”

Lui resta un momento in silenzio, come riflettendo.

“Mamma, ho paura”

“Lo so. É giusto e normale. Per questo siamo qui con te. Sai, in questo ospedale sono molto bravi, sono davvero sicura che andrà tutto bene”.

“Mi sento nervoso, non riesco a stare fermo”

“Posso farti un massaggio?”

“Sì, mamma, grazie”

“Dimmi tu da dove vuoi che inizi”.

Sirio è un bambino massaggiato e lo sa bene: il luogo delle emozioni è il torace. Mi prende i polsi e mi tira finché le mie mani non si posano proprio lì, al centro del petto. Resto. Respiro. Le mani che riposano sul groviglio di emozioni. Lui sospira, sobbalza. Poi, si calma. Silenzio. Le mani scivolano verso le spalle e poi tornano. Si incrociano in movimenti lenti. Piano, piano lo sento ammorbidirsi. Si gira e mi offre la schiena. Avanti ed indietro come le onde del mare, le sue braccia si aprono e si abbandonano al materasso. Trascino via le tensioni, disegno spirali d’amore. Resto, di nuovo. Le mani che riposano su un nuovo momento: il respiro regolare, profondo. Sotto al ciuffo di capelli spettinati i suoi occhi finalmente si sono chiusi e lui riposa. Resto ancora, non si può andare via all’improvviso. Restando, saluto con gratitudine, la sua rilassatezza. Restando, ringrazio il mio percorso di vita per avermi donato questo strumento immenso di relazione.

Tra le mie dita si è intrecciata la trama del suo sonno, sonno di benessere che gli risparmia i pianti intorno, dei bimbi che già tornano e si risvegliano dall’anestesia. Gli risparmia i bip-bip delle macchine, l’inquinamento della paura, la tensione dell’attesa. Sonno di benessere che rasserena anche me, le mie mani che stanno e che adesso possono scivolare via, tirare delicatamente il lenzuolo e, finalmente, nella quiete, andare a posarsi sul mio torace di mamma, a liberare le mie emozioni.

(Veronica)

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Un immenso grazie ad  AIMI – Massaggio Infantile che ha curato la mia formazione e continua a farlo in modo inappuntabile, ma che, soprattutto, ogni giorno, attraverso i suoi insegnanti, dona questo meraviglioso strumento a centinaia di genitori.

Portare per (il suo) bene – Babywearing e postura dei neonati

Quando si parla di babywearing si parla (o si dovrebbe parlare) anche di salute, sia del portato che del portatore.

Ci sono pochissimi studi, purtroppo, sul babywearing in sé, per disinteresse, perché  l’argomento si sta facendo spazio nel modo di accudimento collettivo solo più di recente  o per infattibilità etica, ma, per fortuna, abbiamo come riferimento gli studi posturali sul neonato. Ultimamente leggo con un po’ di apprensione una deriva verso il “è tutto naturale, basta stare addosso”.

Pur sapendo perfettamente il valore del contatto per un bambino, credo che sia importante non sottovalutarne la corretta postura per favorire ed accompagnare un altrettanto corretto sviluppo.  In particolar modo se si tratta di neonati entro i primi 3-4 mesi o, a maggior ragione, di neonati pretermine o con bisogni speciali.

Questo articolo è stato scritto in collaborazione e con la revisione di Barbara Vanoli – Osteopata specializzata in osteopatia pediatrica (tanto da far parte dell’equipe dell’ospedale Pediatrico Meyer), di Francesca Gheduzzi, Fisioterapista pediatrica e docente di Massaggio Infantile dell’AIMI e dell’approccio Bobath EBTA e di Elia Carbone, infermiere pediatrico in neonatologia all’Ospedale di Prato ed insegnante di Massaggio Infantile AIMI, che ringrazio infinitamente per il confronto, per la disponibilità e per le integrazioni tecniche.

Posizione generale

La posizione più consona in fascia (ed adatta a tutti ed in tutte le occasioni) è quella verticale. È l’unica posizione che consente al bambino di mantenere una buona cifosi della colonna vertebrale (che nei primissimi mesi è fisiologica in quanto ancora la curva cifotica è l’unica), una corretta divaricazione delle anche e il sostegno della schiena e del torace cosicchè il bambino non “si accartocci” su se stesso e che quindi mantenga libere ed espanse le vie respiratorie, in accordo con le più recenti indicazioni di prevenzione della SIDS (Sudden Infant Death Sindrome o Morte in culla) emanate nel 2016.

Schiena

La schiena deve essere mantenuta in asse, ovvero il bambino non deve “pendere” verso uno dei due lati, la “C” della colonna vertebrale deve essere nitida ma non eccessivamente chiusa perché, se lo è, significa che la schiena non è sufficientemente sostenuta e che, troppo raccolto su se stesso, il bambino avrà difficoltà a respirare liberamente. Un buon elemento di controllo è la posizione della testa che deve essere appoggiata di lato sul petto del portatore con il nasino che  punti in diagonale verso l’alto. Con il passare dei mesi ed il raggiungimento degli step di maturazione della colonna vertebrale (la capacità di tenere bene la testa, il raggiungimento della posizione seduta, il gattonamento ed infine la posizione eretta) è necessario cambiare la posizione finale del bambino in fascia per assecondare il naturale sviluppo dell’apparato muscolo scheletrico e delle competenze motorie.

Collo e testa

Il collo deve essere ben sostenuto in modo da consentire alla testa una posizione corretta ma non costretta. Questo si ottiene con la tensione ed il posizionamento corretto della stoffa, non con “stratagemmi” di compensazione.

Ad esempio, nella legatura FWCC (Front Wrap Cross Carry), l’imbottitura del bordo che sostiene il collo può essere utile per ammortizzare il contatto della stoffa con la pelle del bambino, qualora sia particolarmente sensibile, o, in caso di ipotonia più o meno

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La testa viene sorretta dalla tensione della stoffa

accentuata del bambino, per contenere e sostenere maggiormente la posizione corretta. Ma in alcun modo può né deve sostituire o compensare una corretta tensione del tessuto, che è in grado di sostenere da solo, in modo fermo ed efficace, la posizione corretta.

La parte posteriore della testolina, specie durante la veglia, non deve essere costretta dalla stoffa perché questo andrebbe ad inibire l’estroflessione naturale del collo, utile per un corretto attacco al seno e per iniziare il processo di sviluppo della muscolatura dorsale. È invece opportuno offrire un eccellente sostegno del collo ed eventualmente contenere la testa con uno dei due lembi  durante il sonno, avendo cura che non vada a costringerla.

Per quanto riguarda i bambini ipertonici, il collo è un elemento fondamentale di “sblocco” della posizione tipica dello schema estensorio e di controllo della disorganizzazione motoria. Quindi si cercheranno legature e tipologie di supporti in grado di ridurre la spinta centrifuga e contro-cifotica tipica dell’ipertonia, attraverso un sostegno saldo e sicuro della nuca.

Braccia e gambe 

Le braccia devono rimanere flesse, ai lati del torace, con le mani posizionate vicino al viso. 

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Le manine stanno bene vicino al viso

Una tale posizione, raccolta sull’asse mediano, consente al bambino di gestire al meglio il proprio schema motorio e di ridurre la disorganizzazione motoria. In questa posizione, il neonato è in grado di esercitare consapevolmente la propria muscolatura ed il proprio schema di movimento. La stessa modalità di posizionamento è molto utile anche per i bambini di basso peso alla nascita o nati pretermine. Questi bambini hanno spesso difficoltà ad autoregolare la propria motricità ed i propri stati comportamentali.  In questa corretta posizione e nel suo approccio contenitivo e facilitante della motricità, ottengono invece dei buoni risultati in termini di regolazione autonomica e di co-regolazione offerta dal corpo del genitore, ovvero l’opportunità che il genitore fornisce al proprio bambino di potersi stabilizzare, di avere movimenti armonici e di passare da uno stato comportamentale all’altro riducendo i segnali di stress e favorendo quelli di benessere

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Le ginocchia sono appena più aperte dell’ampiezza delle spalle

Le gambe devono essere mantenute nella divaricazione fisiologica. Per divaricazione fisiologica non si intende la massima divaricazione raggiungibile dalle gambette del neonato in modo autonomo ma una divaricazione che porti le ginocchia ad una distanza poco più ampia dell’ampiezza delle spalle. Ovvero la posizione che anche da adulti assumiamo quando ci accovacciamo.

Questo è essenziale, come dicevamo per le braccia, per garantire il controllo dello schema motorio con l’allineamento sulla linea mediana e la possibilità di incontrarsi per manine e piedini (che è la base della cura posturale del neonato e soprattutto del neonato pretermine o con bisogni speciali).
La posizione raccolta offre una buona resistenza alla forza di gravità garantendo una posizione attiva, la facilità respiratoria e la stabilizzazione dei parametri vitali, oltre un buono sviluppo psico-motorio.

In posizione prona (come ad esempio sul petto di un genitore sdraiato o adagiato) i neonati tendono ad aprirsi in modo eccessivo. Specie con i bambini prematuri e con i bambini pretermine è necessario contrastare l’extra-rotazione dei cingoli che comporta il rischio di disorganizzazione motoria e di una posizione del corpo non attiva e quindi non funzionale al corretto sviluppo.

 

Teniamo sempre presente anche che il corpo in posizione prona non subisce lo stesso tipo di sollecitazione gravitazionale di un corpo in posizione verticale: chi fa cura posturale dei neonati, specie dei neonati pretermine, infatti, sconsiglia il prolungarsi nel tempo della posizione verticale. Le controindicazioni di questa posizione fanno capo giustamente all’influenza della forza di gravità sul corpo del bambino. In fascia, la forza è contrastata in parte dalla tensione e dal sostegno del tessuto ma è assolutamente necessario sistemare i bambini in modo che il loro schema motorio risponda attivamente alla sollecitazione non ammortizzata dalla fascia (anche questo, in accordo con le più recenti indicazioni di prevenzione della SIDS emanate nel 2016).

Il babywearing può essere uno strumento prezioso per più motivi: il contatto nutre e stabilizza, il movimento passivo che il corpo del bambino fa sfruttando la mobilità muscolare del portatore facilita lo sviluppo muscolare e motorio del bambino, il ritmo respiratorio del portatore induce regolarità in quello del portato e la capacità di termoregolazione dell’adulto va a coinvolgere anche il neonato. Il sostegno della stoffa permette di mantenere le competenze da “portati attivi” dei neonati come ad esempio la capacità di aggrapparsi o di gestire il proprio corpo in modo costruttivo senza essere penalizzati troppo dalla forza di gravità.

La posizione, quando corretta, previene vizi posturali o piccole e medie patologie legate alla postura (displasia evolutiva, plagiocefalia, squilibrio tra destra e sinistra etc).

In particolare, studiosi di etologia come Wulf Schiefenhövel  ed Evelin Kirkilionis, hanno soffermato la loro attenzione, sulla correlazione esistente tra salute dello sviluppo osteo-articolare e il portare in fascia.

Schiefenhövel  parla del beneficio offerto dalla pressione della testa del femore nella cavità acetabolare durante il portare, che andrebbe a favorirne la maturazione.

Beneficio che grazie al continuo movimento favorirebbe il ritmo di crescita ossea.

La Kirkilionis ha descritto invece nei suoi studi come i bambini portati sul fianco, con appoggio sul bacino dei propri genitori, tendono ad assumere  spontaneamente il fisiologico angolo di apertura delle anche, cioè quello migliore nella displasia congenita dell’anca. Si è visto inoltre, che bambini con displasia portati regolarmente dimostrano meno problemi con l’innalzamento dorsale del bacino, rispetto ai bambini che sono trattati solo il divaricatore.

Non possiamo, però, dimenticare che qualsiasi supporto o modo di portare per più corretto, naturale e spontaneo che sia, deve essere curato in funzione del neonato e delle sue caratteristiche fisiche, psichiche e relazionali peculiari.

Quindi portare in fascia assolutamente si, ma con criterio. Non si deve improvvisare e laddove ci fossero dei dubbi è sempre meglio rivolgersi ad un consulente formato e preparato.

Come sempre, è il modo che può fare la differenza dell’oggetto.

(Veronica)

 

Piccole storie ossitociniche: ma è vero il linguaggio della pelle?

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Due storie a distanza di 4 anni. Un bimbo e una bimba. Il massaggio infantile.

C’era una volta un piccolo gruppo di mamme, ciascuna con il suo bambino. Frequentavano un corso di massaggio e erano diventate molto affiatate.

All’ultimo incontro venne un papà. Si vedeva che si sentiva a disagio: aveva percepito questa grande coesione e si sentiva fuori luogo. Ma, coraggiosamente, stava lì.

Mamma si sedette e iniziò a massaggiare bimbo. Babbo le stava accanto e li guardava con amore.

Gambine. Bimbo iniziò a lamentarsi e a sorridere a babbo: “Voglio proprio che mi massaggi tu”, sembrava dicesse…certo era proprio un’occasione da non perdere il babbo lì con loro!

Mi permisi di accennare un suggerimento.

Mamma sorridendo fece sì con la testa e cedette il posto. Babbo, un po’ imbarazzato ma felice, massaggiava le gambe. Lui e bimbo si guardavano, bimbo gorgogliava e rideva.

Arrivò il momento della pancia e poi sarebbe stato il turno del torace. Eravamo all’ultimo incontro e bimbo già lo sapeva. Ma le emozioni di babbo erano un po’ troppe per sopportarle con la pancia e con il torace, e bimbo iniziò a lamentarsi e a guardare di nuovo mamma.

Ancora un accenno di suggerimento, ma già stavolta c’era meno bisogno.

Così si scambiarono di nuovo. E bimbo si godette tutto il massaggio.

C’era una volta un piccolo gruppo di mamme, ciascuna con il suo bambino. Frequentavano un corso di massaggio e due di loro erano sempre accanto: le loro bimbe erano cugine!

All’ultimo incontro bimba si lasciava massaggiare con piacere. Com’era diversa dalla prima volta che aveva pianto tanto”

Mamma, contenta e rilassata, mentre massaggiava scambiava qualche parola con la zia di bimba.

Bimba iniziò a lamentarsi, mentre le mani di mamma scorrevano su di lei: “Ehi, mamma, stai parlando con me, non cambiare discorso, lascia fare la zia!”

Mi permisi di accennare un suggerimento.

Mamma sorridendo fece sì con la testa e, interrompendo la conversazione, tornò a concentrarsi su bimba.

Lei e bimba si guardavano, bimba gorgogliava e rideva.

Quando si dice che i bambini parlano a perfezione il linguaggio della pelle e che se, attraverso il massaggio, iniziamo a parlarlo anche noi, poi ci si capisce alla perfezione, si dice solo la verità.

Una verità che stupisce, tanto da non sembrare vera.

Eppure lo è, in tutta la sua forza e la sua bellezza.

(Veronica)

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Venite e…portate anche i nonni!

É la mia frase tipica quando invito i futuri o i neo-genitori agli incontri informativi sul babywearing o sul massaggio infantile.

Normalmente assisto a sogghigni o ad espressioni sconsolate. Qualche volta addirittura ad evidenti segnali di fastidio. E le motivazioni sono sempre le stesse:

“Eh sie…tanto hanno poco da criticare!”

“Figurati, loro sono proprio all’opposto di queste cose!”

Eccetera, eccetera…

È successo anche qualche tempo fa, durante un incontro. Allora, mi concessi un pochino di tempo per esporre le ragioni del mio invito e da allora, alcune tra quelle mamme continuano a chiedermi di scrivere le cose che dissi, perché possono servire.
Ed ecco qua, con la mia solita calma, a dar loro ascolto.

Chi sono i nonni di oggi?

In buona parte, sono genitori di ieri, forzati da pregiudizi culturali ed indicazioni mediche dettate da opinioni soggettive a crescere i propri figli con il criterio dell’indipendenza precoce.

I bambini nati e cresciuti negli anni ’80 e ’90 – i genitori di oggi – sono bambini poco allattati al seno, poco tenuti in braccio, mantenuti distanti nel sonno (spesso con i metodi dell’estinzione graduale del pianto, oggi ufficialmente ritrattati), massaggiati poco e raramente.

I loro genitori li hanno cresciuti così convinti di fare il loro bene. A volte in modo per loro naturale, perpetrando modelli pedagogici e di accudimento di tradizione familiare, a volte rinunciando con dolore, per ciò che credevano essere il benessere e la crescita equilibrata dei figli, al loro istinto, alla voglia di star loro vicino, di tenerli vicini. 

E gli anni son passati, ed i figli si son fatti grandi, onesti, capaci di andare con le proprie gambe: hanno fatto un buon lavoro, come genitori, va tutto bene.

Finché i figli non diventano genitori.

E magari genitori che scelgono di tirar su i figli “a contatto”, come Natura comanda.

Ed è a queso punto che si crea spesso una voragine tra le generazioni e, peggio ancora, tra gli affetti.

Perché i genitori, per intraprendere il percorso che hanno scelto, si sono informati tanto e tanto faticano ad attuarlo perché tutti sappiamo quanto sia difficile dare ciò che non si è avuto, che non si è mai conosciuto.

Ed in questa fatica, si aspettano il sostegno dei familiari. 

Sostegno che, invece, viene soffocato dalle critiche.

D’altra parte, loro, i nonni si trovano improvvisamente davanti a posizioni, informazioni, dati scientifici che comunicano loro soltanto qualcosa di terribilmente doloroso: hai perso un’occasione. 

Uscite dalle labbra dei figli, queste nuove informazioni arrivano con un carico – spesso nemmeno voluto – di sensi di colpa, di giudizi. Diventano: con me hai sbagliato, mi hai fatto mancare cose importanti.

Con questi fardelli emotivi la deriva della relazione è quasi una conseguenza naturale.

Però ci sono situazioni in cui le stesse informazioni pesano meno.

E sono gli incontri tenuti da operatori. 

L’operatore è qualcuno di estraneo alla famiglia, che non ne conosce la storia e che quindi pesa emotivamente meno di un figlio che quella relazione ha vissuto da protagonista.

Un buon operatore sa che parla per informare e non per giudicare.

Un buon operatore sa “annusare” la tensione emotiva in sala e sa offrire una via d’uscita alla malinconia, al dolore di non aver accudito i propri figli. Sono vie d’uscita piccole ma esistono. Accudire la madre, far da madre alla madre, come dicono le doule. Si può fare, si può imparare. Si può sciogliersi d’amore a qualsiasi età.

11193415_801293476644889_8966154535350216837_nPartite per tempo, coinvolgete i nonni nelle scelte di accudimento e nelle scelte pedagogiche, fate filtrare l’emozione attraverso le parole più distanti di qualcuno che è lì proprio per informare, sostenere, incoraggiare, offrire vie d’uscita. E poi, chissà, magari potrete provare a ricostruire quello che è rimasto incompleto. 

In ogni caso, ne guadagnerete tutti in benessere, armonia, amore, possibilità di recupero.

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Attaccamento morboso

Spesso si sente definire l’attaccamento tra genitori e figli (e più ancora quello tra le mamme e i loro figli) “morboso”.

Considerando la possibilità che ci siano relazioni non sane, vorrei soffermarmi sul significato della parola e sulla norma biologica dell’essere umano.

Il mammifero uomo è un prematuro fisiologico. Questo significa che, anche nascendo a termine, un cucciolo d’uomo ha bisogno di un certo tempo perché le sue funzioni neurologiche e fisiologiche si stabilizzino.

Nei primi 1000 giorni di vita il cervello di un essere umano cresce circa 1gr al giorno. Il contatto positivo, le sensazioni piacevoli favoriscono il crearsi dei collegamenti sinaptici.

Un cucciolo d’uomo nasce con tante competenze ma tante deve crearsele. In primis deve acquisire le capacità di muoversi in modo autonomo per il mondo, deve stabilizzare il proprio sonno, deve preparare il proprio sistema digerente ed intestinale per i cibi solidi e così via.

Oggi OMS ci dice che l’allattamento al seno, quando possibile, è da preferire a qualsiasi altro alimento sul piano nutritivo ma SOPRATTUTTO sul piano relazionale è da protrarsi finché la diade ne sente il bisogno, anche oltre i due anni, perché oltre a portare benefici al corpo, crea una relazione solida e una comunicazione efficace.

Lo stesso si dica delle coccole, degli abbracci, dei massaggi, delle carezze e dei baci: l’essere umano ha bisogno di stimolazioni sensoriali e affettive per crescere sano e sicuro.

Quindi le relazioni affettuose – anche e soprattutto fisiche – tra genitori e figli sono sane, non malate. Oltre stimolare la crescita sana a livello muscolare, neurologico e relazionale dei bambini, insegnano loro a riconoscere il tocco buono, rispettoso, amorevole di chi li ama e a distinguerlo, appunto, dalla morbosità reale. A loro volta, imparano ad amare e a rapportarsi fisicamente agli altri in modo rispettoso e amorevole.

Quindi non confondiamo le cose e lasciamo la patologia ai campi in cui effettivamente ci sono delle disfunzioni relazionali grosse (che invece, specie nel mondo adulto, oggigiorno sembrano essere la norma). La prossima volta che incontrerete un genitore che sta accudendo suo figlio, sorridete loro. Anche se per la vostra visione quel bambino fosse “troppo grande” per essere portato addosso, allattato, massaggiato.

Riserviamo la nostra capacità di dissenso per le reali morbosità: forse nella nostra società ci saranno meno violenze.

morbóso agg. [dal lat. morbosus]. – 1. Nel linguaggio medico, che è proprio di un morbo, o che ad esso si riferisce, o, più genericam., che ha significato patologico: stato m.; condizioni m.; sintomi m.; sintomatologia m.; anche, che apporta un morbo, una malattia: causa m.; agenti morbosi. 2. In senso fig., di sentimento, che, nel suo manifestarsi, denota eccessività rispetto alla norma, e quindi mancanza di misura e di equilibrio; per estens., opprimente, ossessivo

Invece, queste, sono immagini d’amore sano, sanissimo, prezioso.

Non confondiamo le cose.

(Veronica)