Categoria: accompagnare la nascita
Babywearing…e se iniziassimo dalla pancia?
Da anni propongo ai genitori un incontro prima della nascita a tema “portare i bambini fin da dentro la pancia“. Negli anni questo incontro si è trasformato, aggiornandosi in funzione dei nuovi percorsi formativi e dell’osservazione costante dei bisogni sempre diversi dei genitori.
…Ed è diventato il mio corso del cuore, quello che per me apre la strada alla condivisione con la C maiuscola.
Ma come funziona?
Il corso è rivolto a genitori in attesa al 7-8 mese di gravidanza. Lo propongo – ogni volta che è possibile – come un incontro di coppia dove per coppia non si intende necessariamente il secondo genitore ma la persona, se c’è, che sarà più vicina alla mamma e al suo bambino.
Che benefici può portare partecipare in coppia?
1) Dal punto di vista pratico e fisico la mamma con la pancia, pur provando la legatura con l’apposita bambola didattica (di dimensioni molto inferiori a quella standard per non gravare sul pancione ed essere maneggiabile nonostante…l’ostacolo logistico) otterrà comunque un risultato non verosimile. Mentre il papà o chi accompagna la mamma ha la possibilità fisica di provare una legatura molto vicina alla realtà, di studiarla e di concentrarsi sulle sensazioni fisiche ed emotive che porta il legare anche solo…simulando!
2) Dal punto di vista emotivo: la mamma che deve affrontare il parto ed i primi giorni spesso complessi ha la possibilità di non sentirsi unicamente responsabile anche della tecnica della fascia. D’altro canto il papà è spesso lasciato ai margini dell’attesa e vive quotidianamente la difficoltà nel comprendere il proprio ruolo pratico in modo precoce alla nascita. Insomma per come viene (non) accolto o (non) considerato un papà in attesa, sembrerebbe che non sia ancora davvero papà e che possa esserlo solo dopo la nascita del suo bambino. Ma ogni papà sa che non è così, che come la mamma è già genitore fin dal momento in cui ha davvero desiderato quel bambino.
3) Ed è così che siamo arrivati al punto di vista relazionale: si inizia a costruire un ruolo per l’altra persona. Il papà, l’altro genitore (o comunque il secondo care giver) si fa “custode” della tecnica, starà a lui/lei conservarla e ricordarla per metterla in pratica dopo la nascita. Non ci sono ormoni, esperienze emotive forti di rinascita fisica a mettersi in mezzo tra lui/lei e la tecnica di legatura: sarà il suo tesoro prezioso da portare in dono al suo bambino. Un tesoro che è pieno di cura ed è veicolo di costruzione di una relazione tattile precoce e solida.
La legatura del pancione e la legatura pancia a pancia con la bambola didattica consentono ai genitori di prendere dimestichezza con la stoffa. Le legature proposte hanno quasi tutti i passaggi in comune. Laddove possibile, privilegio queste due legature in coppia (che in verità sono una l’adattamento dell’altra) per rassicurare la madre che il tempo che manca al parto può funzionare da “allenamento” senza sovraccaricare di tensioni la pancia. Spesso le mamme ne traggono sollievo, specie quelle che pensano di essere “imbranate” con la stoffa: allenano lo “spollicio pinzo“, il controllo dei bordi, il drappeggio della stoffa e ci prendono mano;
La fascia, tra le dita dei genitori, prende vita, si impregna di amorevolezza e del loro odore. La mamma ha la possibilità di avvolgere il pancione pensando a quando porterà il bambino e quindi attiva tutta una serie di emozioni di cura che fanno bene a tutti, specie ad entrare in contatto con il bambino. Il papà o l’altro genitore avrà tra le braccia una bambola che può aiutare a concretizzare la sua immaginazione: il peso della bambola segna la pelle e scende giù fino al cuore, dove è ancora nascosta la fantasia sul suo bambino in arrivo e le dà corpo e forma.
Mentre i genitori sono a lavoro, tra loro si crea una specie di complicità nella “coppia”: fanno la stessa cosa in modi e tempi diversi e questo è un po’ lo specchio del loro prossimo futuro.
Infine il momento più buffo, signore e signori…il Rebozo!
Il Rebozo è un telo messicano con cui si pratica un massaggio rilassante non invasivo. A fine incontro, quando le mamme pancione sono piuttosto stanche, propongo ai papà o all’altro genitore qualche tecnica da tenere in serbo per ogni momento in cui ne sentiranno il bisogno. Non è ovviamente un massaggio completo, ma ha i suoi benefici e soprattutto è un ottimo strumento per far “giocare” la “coppia” . Funziona particolarmente con le coppie di genitori, com’è ovvio, ma ho visto anche diverse coppie mamma e figlia divertirsi molto.
Amo questo momento perché spesso il clima che circonda la coppia è terribilmente pesante e “prestazionistico”. Un po’ di “educazione al fanciullino” non guasta affatto. E, si sa, le risate sprigionano gli ormoni buoni, serotonina e ossitocina così importanti prima, dopo e durante la nascita.
Insomma, un incontro buffo e pieno d’amore, che non scorda la tecnica e non lascia fuori nessuno.
Benvenute, famiglie.
(Veronica)
Attenzione: la fascia non schiaccia i muscoli addominali e “sostiene” semplicemente dando un’indicazione posturale di apertura delle spalle e del riassetto della schiena. Quindi assolutamente la fascia non può essere comparata alla pancera. Un pochino più approfonditamente ne parlo qui.
Mani che tracciano percorsi
Quando a due o tre anni ti presentano un fratellino o una sorellina non hai tante parole per accoglierlo.
E nemmeno per raccontare cosa ti accade nel cuore, quel tumulto di emozioni che si mischiano: amore istintivo, paura, gelosia, entusiasmo.
Quanti sentimenti! E quante poche parole!
Eppure la via d’uscita esiste e loro lo sanno, i bambini, come fare: hanno la loro risorsa più preziosa, il linguaggio della pelle.
Per conoscere il nuovo arrivato lo vogliono e lo devono toccare.
Per poter comprendere l’istintivo amore, vogliono e devono abbracciare e baciare quel fratellino.
Per metabolizzare la loro gelosia, la loro paura, vogliono e devono essere abbracciati, toccati, accarezzati, contenuti e rassicurati da chi non conosce menzogna: la pelle.
Però, spesso, non sappiamo ritagliarci un momento per dar spazio a questo tipo di contatto.
Pensiamo che il tempo dedicato al grande sia “valido” solo se il piccolo non è presente.
Temiamo che la maldestrezza tipica dei due-tre enni possa nuocere al neonato.
E restiamo con la grande frustrazione di non star costruendo niente di armonico, rifugiandoci nella “saggezza” comune del “poi passa”.
Ma che cosa debba passare, esattamente chi lo sa?
Se passerà l’emozione, se passerà il bisogno di esprimerla, chissà?
Nel frattempo quel che passa sono le giornate, nel tentativo costante di inibire il contatto maldestro, di cercare momenti da dedicare solo al più grande, districandosi tra i pianti di uno e dell’altro così diversi eppure così uguali.
E se invece ci fosse un piccolo aiuto?
No, non parlo di nonne e suocere che vengono a cucinare o a portare il grande ai giardini. Ben vengano ma non sono, adesso, il nostro “fuoco”.
Vorrei raccontarvi, infatti, della magia del massaggio infantile.
Di tutti i benefici del massaggio infantile sul neonato e sulla relazione tra neonato e genitore potete leggere sul sito ufficiale di AIMI.
Qui, invece, vi voglio parlare del potere del massaggio sui fratelli ed in funzione della stabilizzazione di un nuovo equilibrio familiare.
Il bambino grande ha bisogno di toccare, di entrare in relazione, di sentire, di conoscere.
Come si concilia questo con il timore che i gesti ancora maldestri non siano pericolosi per il bimbo?
La reazione più comune degli adulti è negare o interrompere il contatto accompagnando il gesto con le espressioni più incomprensibili della storia, almeno per un bambino:
– No! così gli fai male! [ok, così no…e come allora?!]
– Fai piano! [io STO facendo piano!]
– Fai “caaaaaro”! [Ok, devo fargli una carezza. Quanto pesa la carezza?]
Senza alternative, o con alternative così vaghe che l’unica cosa che il bambino può capire è che quel che sta facendo o come lo sta facendo non va bene.
Si rischia di aumentare la distanza, di dare un messaggio di incompetenza , di trasmettere sfiducia e sospetto, di nervosismo.
Si rischia di ignorare che gran parte della maldestrezza è dovuta al vortice emotivo e che quest’ultimo non farà che intensificarsi, in questo caso.
Il massaggio è un angolo di responsabilizzazione, di permesso, di concentrazione.
Sono bambini piccoli, ma chi l’ha detto che un bimbo piccolo non può ascoltare, comprendere, imparare?
Una proposta preziosa può essere massaggiare insieme.
Spiegare i gesti, anche attraverso il tatto, il contatto. Mostrarli, farli provare. Una mano dopo l’altra lentamente. Magari sulle gambine, che non sono così delicate.
Un piccolo rituale ogni volta: prendere e scaldare l’olio tra le mani, chiedere il permesso, scoprire il tocco gentile che “ascolta” prima di iniziare.
Tutto, nel massaggio, canalizza l’emozione confusionaria verso qualcosa di importante, di strutturato.
Ecco un modo per toccare quel piccolino con competenza, con concentrazione. Ecco che mamma e papà insegnano e quindi si fidano, danno un compito, un ruolo, definiscono un posto emotivo e fisico di libertà: perché laddove non siamo “schiavi” delle emozioni, siamo liberi, profondamente, di esprimerle, di viverle, di starci dentro nell’ascolto e nell’elaborazione. Laddove ci sentiamo valorizzati nel nostro ruolo e nelle nostre capacità, siamo già più capaci di dare.
Nel massaggio condiviso, stiamo dedicando del tempo prezioso, un momento prezioso che proprio lo è perché non è esclusivo.
Con questi momenti si sostiene il nuovo equilibrio. Perché si vive un momento bello insieme, senza esclusioni: si capisce che il bello continuerà anche con il nuovo arrivo, anzi, specialmente con il nuovo arrivo.
Poi l’ossitocina riempie l’aria ed improvvisamente anche il grande chiede un massaggio. Magari piccolo, magari rapido. Oppure un abbraccio, una coccola alla testa.
Ecco la porta per entrare in un contatto più profondo, più diretto, più sincero. Un contatto non mediato da schemi mentali, aspettative, timori. Un contatto magico che ha il potere di unire, rilassare, trasmettere amore come nessun altro.
Per questo sono così grata le rare volte in cui un genitore viene al corso accompagnata dal bambino grande. Perché so che è iniziato il loro percorso che le porterà ad essere una nuova e rinnovata splendida famiglia.
Le mani lo disegnano, tiepide d’olio, sulla pelle e magari su una bambola. E poi si intrecciano e poi una testolina bionda si appoggia al petto di mamma, scappa un sorriso, appare una piccola tazza per prendere il tè come i grandi e con i grandi mentre il piccolo succhia il seno o pisola, rilassato, sul cuscino.
Nella stanza si diffonde un’emozione carica di dolcezza, di empatia, di partecipazione.
E le chiacchiere delle mamme, oggi, si sono scordate di animare la pausa, soppiantate da un silenzio vibrante, carico d’amore.
(Veronica)
Mani libere…di prendersi cura
Una delle frasi che ho amato di più sulla maternità è di Verena Schmid che nel suo “Venire al mondo e dare la luce” afferma: quando nasce un bambino nascono anche una madre e un padre.
In effetti l’arrivo di un pargolo in casa porta grandi rivoluzioni e stravolgimenti: saltano gli orari, crollano le abitudini, i ritmi si serrano e tutto gira attorno al piccolo nuovo membro della famiglia. Con il passare delle settimane le cose iniziano ad assestarsi, nuove routine e nuovi equilibri prendono il posto di ciò che ormai è solo il ricordo lontano di una vita che nemmeno si ricorda più di aver avuto. La nuova famiglia sta germogliando.
Gli animali di famiglia vivono un po’ passivamente questo complesso processo di distruzione e ricostruzione su nuove fondamenta, catapultati da un giorno all’altro nel percorso di cambiamento di un gruppo familiare che fino a ieri dava sicurezza e affidabilità attraverso abitudini consolidate e rituali condivisi.
All’improvviso cambiano gli orari, si pranza e si cena in momenti insoliti, di notte non c’è più quel rassicurante silenzio, di giorno – se la famiglia è allargata – può esserci un gran via vai di persone e gli umani di casa sembrano più distanti, presi inevitabilmente dall’impegno dato dal nuovo arrivato (urlante, invadente e odoroso “di strano”, per giunta!).
Una delle abitudini più a rischio di venir sacrificate in questo periodo di riadattamento, anche nelle famiglie più inclusive dei non umani conviventi, è l’uscita con il cane. Questo vale soprattutto per la mamma e per varie ragioni: può essere reduce da un parto impegnativo che le richiede di riprendersi mentre si occupa del bimbo; può avere delle difficoltà nella gestione del piccolo che la allontanano da altre incombenze più delegabili; può essere semplicemente stanca (ebbene sì) e desiderare di trascurare alcune cose; sul lato pratico, può trovare disagevole spingere una carrozzina e gestire un guinzaglio contemporaneamente, a maggior ragione se il cane è medio-grande, lei non ha aiuti esterni ed è pervasa dalla sensazione di dover imparare a muoversi nel mondo nella sua nuova condizione.
Del cane, allora, finisce di occuparsi il papà, magari a fine giornata, stanco e desideroso di godersi il piccolo (e quindi frettoloso nel rientrare) oppure la nonna, lo zio, il cugino, persone sicuramente di famiglia ma non la SUA famiglia, dal punto di vista del cane. Quello che è un lieto evento per tutti, rischia di trasformarsi per lui in una situazione di isolamento o, comunque, di ripiego.
Ma anche per la mamma o per la coppia stessa, abituata a vivere il cane come un membro attivo della famiglia, piacevole da coinvolgere quotidianamente, dover rinunciare alle passeggiate a più zampe può risultare frustrante, oltre a togliere l’occasione di fare moto e stare all’aperto, attività importanti per evitare l’isolamento indotto, talvolta, dal prendersi cura di un bimbo sotto l’anno.
Ecco allora che la fascia può diventare uno strumento aggregante, non solo tra mamma e bambino ma tra la neo-famiglia e il suo cane.
L’uso della fascia lascia libere le mani per permettere anche alla mamma sola di condurre il cane in sicurezza, evitando la scomodità di spingere un passeggino e insieme gestire un guinzaglio. In questo modo anche il più esuberante dei cani può essere portato in passeggiata mentre il piccolo dorme o inizia a scoprire il mondo dalla sua postazione riservata.
I vantaggi vanno a doppio senso, abbracciando l’intera relazione. Il cane sentirà che la sua presenza è ancora valorizzata malgrado il riassetto sociale in corso, la mamma ha l’occasione di uscire e svagarsi e magari socializzare, al bar o in piazza, o semplicemente rilassarsi in una tranquilla passeggiata nel verde. Il bimbo inizia a godere del mondo, dell’aria aperta e del contatto profondo con chi lo ama.
Ma, se tutto cambia, è così importante fornire una certa continuità alle uscite a cui il cane è abituato? Insomma, non lo capisce che c’è un cucciolo d’uomo e la priorità ora è lui?
Certo che lo capisce. Ma dovremmo evitare di fargli credere che questo si traduca in una minore attenzione nei suoi riguardi, in un relegarlo agli scarti di tempo. Per un animale profondamente sociale come il cane questa potrebbe rivelarsi una sofferenza troppo grande da tollerare, andando a inficiare persino l’accoglienza e poi la futura relazione col neoarrivato.
I cani sono abili lettori delle dinamiche familiari e sono dotati di una grande tolleranza ai cambiamenti sociali, purché essi avvengano in nome di una coesione di gruppo di cui si sentono parte attiva. La fascia può essere uno strumento straordinario per traghettare nel nuovo mondo non solo il bimbo ma, idealmente, anche il cane in modo che il suo ruolo nel tessuto familiare resti confermato, così da gettare i semi di una convivenza che richiede solo occasioni aggreganti per evolvere e crescere.
Riflessioni di un’ostetrica moderna
Sin dalle elementari, decisi che da grande avrei fatto l’ostetrica perché mi piacevano i bambini, ma non c’avevo capito granchè… eh sì, perché già dall’inizio del mio tirocinio universitario capii subito di chi invece avrei dovuto occuparmi maggiormente: delle donne e non dei bambini.
L’ostetrica, ho capito, che non è colei che fa nascere i bambini (come si sente sempre dire), ma è colei che, silenziosa ma presente come un gatto, guida la donna al miglior parto e il bambino alla miglior nascita.
Come? Non facendo niente…
E che lavoro sarebbe allora non far niente ci si potrebbe chiedere?!?!
Il lavoro dell’ostetrica, invece, è un duro lavoro, oggi più che in passato!
Non è vero che oggi siamo facilitate perché ci sono le ecografie e non si usano più le mani… ci sono i cardiotocografi e non si usano più le orecchie… ecc, ecc … al mondo d’oggi fare l’ostetrica è davvero molto faticoso.
Infatti, non sono le mani o le orecchie che riposano a fare il lavoro più semplice, perché tanto per fare l’ostetrica ci vogliono più che altro il cuore e l’anima, nel senso che se sei un’ostetrica lo sei sempre, lo sei dentro, insomma è la tua missione.
La missione di noi ostetriche moderne, penso io, sia molto ardua, e qual è?
Restituire il parto, la nascita, il sapersi madri alle donne!
Un sapere e una faccenda ahimè molto complicati al giorno d’oggi poiché le mani maschili sul parto hanno fatto sì che le donne dimenticassero il loro saper essere gravide, il loro saper partorire, il loro saper allattare.
E’ tutto racchiuso in schemi e tabelle (per carità servono… ma non sono tutto!) e tra numeri, ascisse e ordinate, le donne perdono il loro istinto, delegano il loro corpo, il loro cuore e la propria mente ad altri che le espropriano del loro POTERE !
Ebbene, l’ostetrica deve far riacquistare questo potere alle donne, lo deve risvegliare dal torpore dal quale è offuscato da troppo tempo!
Ecco allora perché faccio l’ostetrica, per permettere alle donne di ritrovare la fiducia in loro stesse, per permettere alle donne di sentirsi forti come rocce, di sentirsi potenti, di sentirsi dee!
No, non esagero!
Ogni donna che partorisce compie un piccolo miracolo, dona alla luce una nuova vita… cioè vi sembra poco?
Gli uomini hanno sempre avuto paura di ciò e maschilizzando e medicalizzando, cercano di appropriarsi il merito della nascita.
Quante volte sentiamo dire dalle donne “l’ha fatto nascere X ostetrica o X medico” e ahimè anche tanti medici o colleghe che dicono “ l’ho fatto nascere io!”.
Niente di più terribile!
La vittoria più grande per me nell’assistere una donna, è che dopo il parto sia fermamente consapevole che il suo bimbo/a è nato grazie alla sua forza (e anche dei bimbi per carità anche loro fanno la loro parte ..) e al suo POTERE di dare alla luce.
Questo, però, quando non accade genera molta frustrazione… e purtroppo molto frequentemente non accade, perché l’ostetricia moderna ahimè prevede molta medicalizzazione e il non rispetto dell’andamento e dei tempi fisiologici del travaglio.
Per un’ostetrica, quindi, diventa difficile difendere la donna da disturbi esterni, ma lo facciamo ed è questo il nostro lavoro: difendiamo le donne!
Se proprio devo dirla tutta, personalmente gradirei più autonomia e meno persone nei travagli… porte che sbattono, chiacchiericci, persone che entrano ed escono … queste cose mi fanno proprio arrabbiare!!
E se danno fastidio a me che non ho le contrazioni, mi immagino una “povera” donna che cerca di creare la sua tana e si sente disturbata in continuazione… una follia!
Quindi sì, meno persone nei travagli e , se proprio non fosse possibile farne a meno, che almeno stiano zitte… e ferme… non si dovrebbe notare la loro presenza, perché non si può facilitare un processo involontario , si può solo non disturbarlo!!
Ecco, vi prego NON DISTURBATE una donna in travaglio!
E poi sì, che almeno la fisiologia sia nostra, noi siamo le tutrici della fisiologia… basta con interventi inutili e dannosi, basta rompere le membrane senza indicazione clinica, basta far spingere le donne a comando perché no… dilatazione completa non vuol dire per forza inizio del periodo espulsivo… basta costringere le donne a pancia in su come tartarughe in difficoltà, basta fare tagli al perineo per accelerare un espulsivo senza motivo, basta dare un “aiutino” sulla pancia per far nascere prima il bambino… insomma BASTA , non se ne può proprio più!
Tutto per accelerare, per far prima… come se ci stesse scadendo il tempo massimo… d’altronde tutta la nostra società va di fretta: fastfood, cibi pronti, macchine, cellulari, sms, Facebook… eh sì, c’entra c’entra… perché non c’è più tempo di cucinare, non c’è più tempo per mangiare, non c’è più tempo per le passeggiate, non c’è più tempo per incontrarsi, non c’è più tempo per fare due chiacchiere e ,purtroppo, non c’è più tempo per partorire!
Quindi, alla fine di tutta questa lunga e tortuosa riflessione, volete sapere perché ho fatto l’ostetrica?
Per custodire il tempo della nascita.
(Monica)
Avrei voluto scrivere un’invettiva…
…ma l’amore che ho per il mio lavoro e per il benessere delle famiglie l’ha trasformata in un appello. E quindi…
“Il miracolo della 34 strada” è un classico della filmografia natalizia americana. Affascinante nel suo bianco e nero, nella moda anni ’30 e nei dialoghi di un livello linguistico che a confronto con la nostra quotidianità sembra quasi aulico. È un film poetico e molto dolce che consiglio a tutti, specie i più romantici.
Nell’intricata vicenda ad un certo punto Babbo Natale, provvisoriamente impiegato come sua controfigura in un grande magazzino, invece di perseguire la classica politica dello spingere ai clienti oggetti in giacenza, che in verità non desiderano e non soddisfano il loro bisogno, consiglia di rivolgersi alla concorrenza.
Quest’idea che all’inizio lascia tutti sbigottiti si rivela essere geniale perchè i clienti si sentono improvvisamente valorizzati nelle loro reali richieste e bisogni e, pur comprando l’oggetto alla concorrenza, diventano poi clienti fissi ed entusiasti del grande magazzino che li ha fatti sentire così importanti.
Ecco. Il mio appello comincia così. Come Babbo Natale.
E mi rivolgo ovviamente a tutti quelli che lavorano intorno alle famiglie: personale medico, educatori, consulenti di varia natura, doule, psicologi e psicoterapeuti, pedagogisti, counselor, osteopati, volontari, e chi più ne ha più ne metta.
Costruite intorno a voi una rete di professionisti il più possibile ampia e curata. Conosceteli uno ad uno, mettetevi in relazione, andate a vedere come lavorano, raccogliete feedback in giro e poi legatevi in proficue collaborazioni. Così, se siete in presenza di un problema e comprendete di non poterlo risolvere, potete fare affidamento su chi magari la soluzione può trovarla.
Ammettere di non riuscire non è fallire. E non è perdere “il cliente”. È fare l’unica cosa sensata in coscienza: mettere il bene della famiglia sopra ogni cosa.
Perderete soldi? quanti? 80€? 200€? quantifichiamo. Valgono la serenità e la salute di una famiglia?
Perderete stima? no. La guadagnerete. Perché quella famiglia sarà certa che per voi non c’è niente di più prezioso ed importante della sua felicità. Ed i soldi di cui sopra potranno diventare un ottimo investimento.
Mi rivolgo a tutti senza distinzioni.
Signori ginecologi non abbiate paura a chiedere aiuto ad ostetriche o agli infermieri. Sì, la loro laurea non è lunga e complessa come la vostra ma a volte un punto di vista diverso, l’esperienza, un approccio alternativo possono davvero essere utili.
Allo stesso modo, ostetriche (laddove non formate nei campi specifici) vi prego: consulenti di babywearing, insegnanti di massaggio, educatrici, doule, consulenti IBCLC sono vostre risorse non conconcorrenti. Specie per quanto riguarda l’allattamento al seno che è fondamentale: chiamatele, consultatele, consigliatele alle mamme che vogliono allattare. La vostra formazione è bella e completa ma non approfondita su questo tema come quella di una IBCLC. Non è nessun reato dire “Ho fatto il possibile adesso non so più aiutarti, però ho una collega che sono certa potrà essere risolutiva“.
Ma poi anche sul babywearing: un supporto messo male pregiudica la salute della schiena della mamma e del bambino e specie quando le situazioni esulano dalla fisiologia, chiamateci.
Le qualifiche non sono ufficiali e forse sono “poco” rispetto alla vostra laurea ma non avete fatto e fate battaglie per affermare il vostro legittimo posto accanto alla madre nel travaglio e nel parto al posto delle lauree ingombranti dei medici?
Valga lo stesso per le altre categorie. A volte non è la quantità dello studio fatto ma la qualità e l’approccio che possono offrire uno spunto diverso. Il mio amato ginecologo, Dott. Marco Santini, quando lo conobbi che stavo per partorire la mia prima bimba ,disse alle studentesse che indicavano per me il cesareo come unica soluzione: “Noi lavoriamo con le persone e con gli ormoni. Se seguite solo i protocolli queste donne le tagliate tutte”.
Noi tutti facciamo del nostro meglio e godiamo di quel riconoscimento che solo il raggiungimento della soddisfazione della famiglia riesce a creare. Ma quando la soddisfazione non c’è è inutile aggirare l’ostacolo e sminuire la necessità della famiglia. Non arriverà nemmeno se la richiesta si placa. Perché in fondo sappiamo di non aver fatto abbastanza.
Ma se mando una mamma o un papà da qualcuno di fiducia risolutivo ecco che in quel momento il mio cuore sa di aver fatto il possibile. E rimane solo amore.
Chi sostiene la genitorialità lavora con le persone. E le persone non sono frullatori. Non hanno un libretto di istruzioni. Non sono appartamenti in cui ogni impianto ha il suo professionista di riferimento e basta. Le persone sono complesse. Hanno storie, traumi, blocchi, risorse, meraviglie. A volte dove il lavoro di uno psicoterapeuta ha bisogno di tempi lunghi (assolutamete validi e raccomandabili ovviamente), un educatore può trovare soluzioni “tampone” per migliorare la qualità della vita e facilitare il lavoro di tutti. All’ultimo fantastico corso di aggiornamento AIMI sul “Il Massaggio e il bambino con bisogni speciali” una delle due meravigliose conduttrici, la Dott.ssa Simona de Simone – psicologa – raccontò come in una determinata situazione la svolta positiva fu l’intervento di una mamma, semplicemente alla luce della sua esperienza. Questo che significa? che l’esperienza di un genitore vale più di una formazione seria e di una professionalità appassionata? No. Vuol dire che in QUEL momento, in QUELLA situazione era ciò che meglio rispondeva al bisogno. E la bellezza, la sensibilità, la dedizione di un operatore si manifesta proprio in comprendere e lasciar intervenire altri senza giudizio o – peggio ancora – pregiudizio.
Ecco il mio appello. Mettetevi in ascolto. Attivate empatia, ossitocina, pazienza, disponibilità ma soprattutto umiltà. Fate il vostro meglio sempre. Anche se il vostro meglio ha un titolo o un cognome diverso dal vostro. Ricordate sempre che il vostro motore è il benessere delle famiglie. Che le guerre tra poveri per recintare un pezzettino di terra finiscono sempre con la talpa che non conosce reticolati e mangia le radici.
“Senza forti impulsi alla cooperazione, alla sociabilità, al reciproco aiuto, il progresso della vita organica, il miglioramento dell’organismo, il rafforzamento della specie diventano assolutamente incomprensibili. In realtà, lo Haldane e lo Huxley ritengono che la competizione fra adulti della stessa specie sia, nel complesso, un male biologico” – Ashley Montagu
(Veronica)
La paura del contatto
Cosa posso scrivere, io, come mamma, come consulente per l’allattamento, a proposito del tema del contatto con il proprio bambino?
C’è qualcosa di nuovo di cui posso parlare, o c’è qualcosa di già appurato, ma ancora da approfondire? O forse è meglio che parli solo della mia esperienza come mamma?
Quello che è sicuro è che, se scelgo di parlare solo come mamma, non posso evitare di parlare anche di ciò che ha significato per il mio maternato la scoperta e lo studio della fisiologia dell’allattamento e di tutti i temi ad esso collegati, che ho appreso nel mio cammino per diventare consulente.
Sono sempre stata una persona molto amante delle coccole, ho sempre amato il contatto fisico con le persone che amo.
Quando è nato il mio primo bambino, mi è quindi venuto naturale coccolarlo, tenerlo in braccio il più possibile. Il problema è sorto quando questo mio modo di sentire si è scontrato con le opinioni di alcuni. “Lo vizi” era, ovviamente, quella più quotata.
Rispondevo che, se non lo avessi coccolato mentre era piccolo, difficilmente avrei potuto farlo una volta cresciuto. “Non credo che a vent’anni vorrà essere tenuto in braccio dalla mamma, quindi è meglio che ne approfitti adesso”, rispondevo.
Ma quando le opinioni sono diventate sentenze e presagi di sicuri danni, provenienti, questa volta, da “fonti autorevoli”, ecco che ho vacillato. Di giorno sì e di notte no.
Come ho potuto dare ascolto a queste idee, me lo chiedo ancora. Credevo di avere un’intelligenza nella media, ma devo dire che in quel periodo il mio spirito critico, la mia capacità di discernimento e la mia stessa esperienza personale di bambina coccolata e tenuta, a volte, nel lettone, erano completamente svanite.
Quando è nato il secondo figlio e le mie conoscenze si sono ampliate, anche la mia forza di volontà e sicurezza in me stessa sono cresciute di pari passo.
Dove altro poteva stare, il mio bambino, se non in braccio a me? Dove altro poteva dormire, se non con i suoi genitori?
Uscita da poco da un’esperienza di notti insonni passate a camminare per casa o seduta in poltrona (ebbene sì, non chiedetemi perché, ma ho dato ascolto ad un libro che diceva che dormire nel lettone avrebbe causato danni… ma sul perché dormire in poltrona o in giro per casa in braccio alla mamma non causasse gli stessi danni, non ci avevo mai riflettuto), ritrovarmi ad essere travolta dagli ormoni dell’allattamento e scivolare in un sonno completamente rilassato col mio bambino sulla pancia, era un’esperienza nuova e meravigliosa.
E che dire, poi, dello svegliarsi e vedere la faccina sorridente del tuo piccolo, che ti guarda come se avesse visto la cosa più bella del mondo? C’è qualcosa, in tutto l’universo, che potrei preferire al sorriso del mio bambino? Al suo sguardo innamorato e fiducioso? Al profumo della sua pelle, al sapore del suo leggero sudore, quando lo ricopro di baci?
Cominciare una giornata così, ripaga di qualsiasi cosa. E quando, divenuto un po’ più “ingombrante”, la notte a volte non riuscivo a riprendere sonno subito perché un po’ scomoda, anche allora quei momenti di silenzio, di pace, di pausa, erano un modo per trovare il tempo di riflettere, programmare, ripensare, assaporare… tempo che, durante il giorno, con due bambini, non è facile trovare.
Il proseguimento naturale di tutto questo è stato l’arrivo del terzo bambino, il quale ha potuto usufruire anche della fascia, cosa che fino ad allora non ero riuscita a trovare. La mia schiena gliene sarà eternamente grata, ma, soprattutto, ha permesso a me stessa di soddisfare il mio essere una mamma “ad alto contatto”.
Sì, perché non è solo il bambino ad avere bisogno del contatto con la mamma!
Anche la mamma ne ha bisogno, è un bisogno reciproco.
Io ne avevo bisogno.
E tutto questo mi ha aiutato ad essere una mamma migliore, più attenta, meno stanca e meno nervosa.
A volte, quando lavoro con le mamme, capita che un allattamento sia recuperato semplicemente incoraggiando la mamma a stare a contatto col suo bambino più a lungo possibile.
Ma il contatto fa paura. Ci rende totalmente parte della persona che tocchiamo. Diventiamo tutt’uno con lei; siamo indifesi, scoperti, totalmente disponibili. Siamo noi stessi.
Il contatto fisico ci fa entrare in una relazione più profonda con l’altro. In una dipendenza di affetti.
Forse proprio per questo è tanto osteggiato.
Crescere generazioni di uomini e donne incapaci di entrare in armonia con l’altro, incapaci di lasciarsi andare all’affetto, all’empatia, al mettersi a nudo indifesi uno di fronte all’altro è, secondo me, un ottimo modo per creare società chiuse da governare senza problemi e pronte da mandare in guerra contro il primo “nemico” di turno.
Ma chi è abituato a guardarsi negli occhi, a sentire il calore del corpo dell’altro, a godere delle sue carezze, davvero riuscirà a vedere nell’altro un nemico da abbattere, piuttosto che una ricchezza da conoscere?
(Paola)
Cantate Mamme!
Parliamo ai nostri bimbi fin da quando sono nella nostra pancia, quando ancora non li abbiamo incontrati ma già li conosciamo. Gli parliamo e anche cantiamo per loro, lo facciamo spontaneamente, perché sappiamo che in qualche modo ci possono sentire e anche capire. Da dove ci viene questa sicurezza? E’ l’istinto della mamma, è la profonda saggezza del nostro corpo che ci porta a ricercare una relazione con il nostro bambino fin dal momento che sappiamo, sentiamo, della sua presenza. Ed è vero, il nostro bambino, là dentro, al sicuro, nel suo mondo tutto speciale, può sentirci. Non solo, lui ci sente in un modo totale e totalizzante. Sente la musica della sua mamma. Si, perché ogni donna in gravidanza è totalmente Musica, con i suoi movimenti, i suoni del corpo, il ritmo del respiro, il battito del cuore… e naturalmente la sua voce. La voce della mamma è la musica più bella per ogni bambino. Il suono arriva da dentro e da fuori, si trasmette attraverso le strutture del corpo materno e nel liquido amniotico ogni vibrazione giunge al piccolo corpicino formandolo e in-formandolo. I suoni contribuiscono alla formazione della sua struttura fisica e nervosa; esperienza prima ed attivante per gli organi di senso, diventa esperienza affettivo-relazionale. Il bambino “sente” la nostra voce ricevendola con tutto il suo corpo, e tramite essa sente tutta l’emozione che proviamo mentre gli parliamo o gli cantiamo. Il feto cresce all’interno della pancia della mamma, potremmo dire che più vicino di così non si può, ma il contatto con lei avviene tramite il dialogo sonoro fatto di suoni e movimenti: il feto si muove, reagisce, ‘risponde’, quando sente la voce della mamma, e anche del papà.
Il contatto mamma-bambino attraverso la voce è un contatto magico, musicale, fisico, spirituale. Permette di costruire una relazione sonora che dura tutta la gravidanza e oltre. Il bimbo riconoscerà la voce della mamma e anche le melodie che gli cantava, e sarà per lui tranquillizzante perché gli riattiverà uno stato di sicurezza e calma.
La voce della mamma che parla, o canta, al suo piccolo, è una voce particolare: l’essere indirizzata a lui, la sua intenzionalità comunicativa, le conferisce caratteristiche timbriche particolari e riconoscibili dal bambino.
La nostra voce, quando ci rivolgiamo al nostro bambino, ha un colore e un calore speciale, è avvolgente, e regala al bimbo l’esperienza di essere pensato e immaginato, accolto e amato.
Quindi cantate mamme! Il vostro canto è un regalo per voi e per il vostro bambino, una “coccola sonora” tutta vostra.
Cantate per voi, per godere della musicalità tutta speciale della gravidanza, perché il canto rilassa, scioglie le tensioni, regolarizza il respiro, attenua il dolore.
Cantate per ascoltarvi, per contattare la vostra emotività, fare esperienza piena della magia di diventare mamma, ad un livello che va oltre il pensiero razionale.
Cantate ai vostri bimbi in pancia, che vi sentono, vi esperiscono, e una volta nati vi ri-conoscono nella voce, e fanno esperienza di continuità. Lasciate che la vostra Musica accompagni la vostra gravidanza e arricchisca lo sviluppo del vostro bambino.
Cantate ai vostri bimbi tenendoli in collo, ancora meglio in fascia, avvolgeteli con le vostre vibrazioni, coinvolgeteli nella musicalità della vostra relazione, che non sarà solo nella voce che uscirà dalla vostra bocca ma nel contatto con il corpo vibrante, il ritmo e il movimento, il massaggio cadenzato del respiro.
E infine, cantate anche con il papà, così che anche nel suono si uniscano le energie del femminile e del maschile, che il bimbo senta la forza e la presenza di entrambi, di questa famiglia che nasce.
(Tiziana)
Ma tu che ne pensi della GPA?
Ultimamente tanti dei miei contatti, genitori o colleghi, mi hanno posto la stessa domanda: “ma te cosa ne pensi della GPA (Gestazione Per Altri)?”
Ma come si fa ad avere un solo pensiero, a prendere una sola posizione definitiva e limitata, pro o contro, su qualcosa che ha così tante sfaccettature e coinvolge così tanti aspetti?
Perché c’è il punto di vista della donna.
Perché c’è il punto di vista dei genitori programmati.
Perché c’è il punto di vista del bambino.
Perché c’è il punto di vista sociale.
Perché c’è il punto di vista emotivo personale di ognuno.
Perché c’è il punto di vista della filosofia della scienza.
Troppi punti di vista per un solo pensiero.
Perciò, oggi mi trovo a scrivere di questo argomento.
Per mettere in fila i pensieri e rispondere a quelle domande non con una posizione ma con tante riflessioni e con tante sfaccettature del mio sentire, come questo argomento richiede.
Ma chi pone una domanda si rende disponibile a sentire la risposta nella sua completezza. Anche in un post lungo e noioso come sarà questo. Altrimenti meglio neppure cominciare.
E parlerò di GPA che NON significa parlare di omogenitorialità se non di sfuggita.
Ci tengo a precisare che per me i genitori sono coloro che hanno amore e rispetto per i loro figli. E che queste due condizioni non sono legate MAI all’orientamento sessuale. Approfitto per avvertire che qualsiasi commento di carattere omofobico, violento o aggressivo non verrà autorizzato.
La GPA è una pratica vecchia quanto il mondo e, come tale, non scardinabile né contenibile neppure volendo: finché ci saranno donne in grado di procreare e disposte o anche, peggio, costrette, a farlo – per vari motivi – per altre persone, il modo di concludere l’operazione si troverebbe.
Se un uomo riconosce un neonato come suo e la madre rinuncia alla maternità, quel neonato sarà affidato al padre. Che quell’uomo sia sposato con un’altra donna, con un altro uomo o single, il bambino è suo. Si comprende, perciò come a livello legale sia inutile qualsiasi proibizione di questa pratica.
Dove voglio arrivare con questo? Voglio arrivare a dire che, per i primi 4 punti di vista che ho elencato, l’unica strada che io sento come sensata e costruttiva da percorrere sia regolamentare la pratica anche IN ITALIA per creare garanzie per tutti.
Per la donna, perché si eviterebbero le situazioni di sfruttamento o di violenza (che oggi tristemente abbondano nei paesi del terzo mondo). Perché sarebbe protetta nei suoi diritti di abortire o meno in caso si rivelino delle patologie, o di tenere o meno il bambino in caso non riesca a raggiungere quella che chiamano “distaccamento emotivo”.
Per i genitori programmati, perché potrebbero vivere l’intera gravidanza da vicino, presenti, conoscendo e facendosi conoscere dal loro bambino.
Per i bambini, perché andrebbero a finire tra le braccia di persone note, di cui conoscono la voce e la pesantezza della mano sulla pancia.
Ancora per i bambini, perché potrebbero trovare tutela qualora qualcosa vada storto ed evitare l’abbandono – o per lo meno l’abbandono economico – come è successo per il piccolo Anton.
Non sta certo a me mettermi a discutere sul desiderio di una coppia di volere un figlio né sul diritto di una donna di far quel che vuole con il suo corpo. Non sta a me perché ho desiderato tanto essere madre e so che è un desiderio potente che, se non esaudito, lascia un enorme vuoto. E non sta a me perché sono una donna e, nel momento in cui mi sono sentita privata – proprio in sala parto – della libertà di decidere su cosa fare del mio corpo, mi sono sentita come una tigre in gabbia.
Però mi preme mettermi – come tento sempre di fare – nei panni del bambino.
Trovo interessante e limitativo come tutti guardino avanti negli anni affermando – supportati da numerosi ed autorevoli studi – che i bimbi nati con GPA, crescendo, non riportano danni o conseguenze.
Come se il dolore provato non contasse o non dovesse essere considerato solo perché poi passa.
Considero la capacità di resilienza una delle più grandi risorse dell’essere umano. Sono certa che questi bambini, desiderati ed amati, vivano vite felici.
Ma questo non mi distoglie – e gli studi sulla vita intrauterina e perinatale mi confortano – che il neonato sia privato in modo programmato di ciò che si aspetta fuori dall’utero e di una relazione d’amore profondo dentro la pancia di chi lo porta. Queste privazioni provocano un dolore, ancorché passeggero, che secondo me deve essere onorato, considerato, ascoltato.
E l’unico modo di limitare questi disagi, a parer mio, è che i genitori programmati non debbano andare dall’altra parte del mondo a trovarsi una mamma portatrice e perciò rinunciare a starle accanto nel tempo della gestazione: la possibilità di stare vicino casa e di farsi conoscere precocemente da quel bambino che prenderanno in braccio (ci sono tanti modi, primo fra tutti potrebbe essere un percorso di aptonomia), darebbe sicuramente sollievo ai bambini , di cui tanto sembriamo importarci.
Ancora: le coppie che decidessero di affrontare questo percorso potrebbero essere seguite, accompagnate ed informate ALMENO quanto ogni coppia che aspetta un bambino. E sostenute nei primi tempi dopo la nascita.
Si potrebbero aumentare le possibilità – attraverso la sensibilizzazione sulle caratteristiche del passaggio da dentro a fuori la pancia – di veder aumentati i parti naturali, di offrire un “atterraggio” graduale e consapevole dei bambini nel nostro mondo attraverso pratiche come il pelle a pelle con la portatrice e con i genitori programmati e forse – chissà – l’allattamento anche parziale almeno per il tempo dell’assunzione del colostro.
Insomma, per quanto riguarda questi aspetti penso che vietare, multare, mettere fuori legge non ottenga se non odio, aumento dei casi clandestini o per vie non ufficiali e del conseguente sfruttamento delle donne e mancanza di tutela per i bambini.
Il mio punto di vista emotivo lo tralascio. Perché non è rilevante, perché non stimolerebbe alcuna riflessione ma l’ennesimo dramma sentimentale come quelli di cui raccontano gli articoli dei giornali, che tanto lucrano su questo aspetto e tanto hanno distrutto di coscienza sociale e di giornalismo di qualità.
Infine, sul punto di vista della filosofia della scienza e della medicina, posso dire che sento necessario il fermarsi, il porsi la domanda seriamente sui quali confini sia giusto tracciare nell’intervento dell’uomo sui processi della vita. così come facciamo per i processi della malattia, della morte o della dignità dell’uomo.
Credo che sia necessario porsi la domanda se sia eticamente corretto investire tanto lavoro e tante energie per modificare un processo perfetto come la nascita e renderlo adatto anche ai casi per cui, nonostante la sua perfezione circolare, non funzioni.
Modificare la perfezione, non è renderla imperfetta?
Anche le medicine sono oltre la natura, anche il guarire o l’accompagnare a morire con dignità sono contro natura, è vero. Ma qui non si discute l’intervento dell’uomo sulla natura in processi almeno apparentemente affetti da “errori” (la malattia è un errore nel processo di nascita – crescita – maturazione – invecchiamento – morte) ma il suo intervento in un processo perfetto ed ottimizzato.
Modificare la perfezione in nome del desiderio è giusto? è sbagliato? è accettabile?
Questo probabilmente non influirà sul perdurare della pratica (appunto come già detto, vecchia quanto il mondo) ma credo che PER ME siano state le domande chiave nel farmi un’opinione etica. Forse gli antichi l’avrebbero chiamata Hybris.
PER ME come persona, come essere umano, come umano pensante la GPA è un po’ troppo, troppo oltre i limiti che credo l’uomo debba rispettare.
(E già vedo occhi strabuzzati: “Ma come… è favorevole alla legalizzazione e alla regolamentazione legislativa della GPA e non le piace la GPA?!”)
Ma non sono un medico, non sono una scienziata e non sono nemmeno una filosofa.
Quindi, detto ciò, non credo che la mia opinione debba essere per forza quella giusta, né che debba tendere all’universale, né tantomeno che debba collocarsi alle basi di una regolamentazione legislativa.
Per questo, il mio intento è di non giudicare ma di lavorare, stavolta come operatrice, seppur nel mio piccolo, perché ci siano le migliori condizioni di accoglienza sulla Terra di questi bambini e le migliori condizioni di accompagnare i loro genitori, biologici e/o programmati, alla conoscenza dei loro bisogni e del loro modo di comunicarli.
E tra queste condizioni c’è la vicinanza fin dal concepimento.
In alternativa (e come sarebbe meglio “a complemento”!) il contatto.
Specie per queste famiglie sarà importante poter scardinare i pregiudizi comuni sul “viziare” i neonati: è attraverso la pelle che ci si conosce, che ci si impara a comprendere e ad amare e che si nutre il processo di cura.
Cura di una perdita che comunque il bambino subisce. Cura delle storie che si accumulano in una famiglia così allargata: i genitori programmati e le loro famiglie, la donatrice, la portatrice, il bambino. Perché ogni nascita, comunque essa sia e comunque avvenga, in ogni parte del Mondo, ha il potere di dare origine ad un potentissimo e meraviglioso processo di cura dei suoi attori.
La pelle cura e nutre ogni relazione, ogni cammino.
Alla fine di questo lungo articolo, esausta per l’afflato di violenza che circola su questo argomento ormai da troppo tempo, vorrei solo concludere: lasciate spazio all’amore.
All’amore di chi genera e di chi attende, all’amore di chi raccoglie i figli del mondo abbandonati e calpestati, all’amore di chi accompagna la nascita perché avvenga nel miglior modo possibile, all’amore di chi può pensare leggi a tutela dei più fragili e dell’amore stesso.
Perché avere una propria posizione etica e filosofica non si trasformi mai in violenza, mai in costrizione, mai in negazione consapevole dei diritti delle persone.
(Veronica)
Per un parto senza dolore
Recentemente ho partecipato -fuori programma- ad un incontro informativo sull’anestesia peridurale.
Me ne sono stata lì, seduta in silenzio ad ascoltare un dottore che spiegava come è possibile avere un parto indolore. E ripensavo al mio parto, ai miei parti. E a tutto il dolore che li ha intrisi, fino a scendere nel più profondo angolino della mia dignità.
E mi sono chiesta, silenziosamente, se a qualcuno interessi scoprire un analgesico per quel dolore, per il dolore che io ho provato.
Dottore, dimmi se esiste un’anestesia contro il dolore di sentirsi incompetente, contro il dolore di sentirsi in balia di sconosciuti, contro il dolore di sentirsi osservati e giudicati, contro il dolore di sentirsi legati da cavi, cinture, monitor accesi.
Dimmi se esiste dottore, o se la scoprirete, un’anestesia per far sparire il dolore del tempo e del ritmo non rispettati: oh, dottore, questo sì che lacera. Non la pelle che è facile da ricomporre, ma l’anima, lacera l’incontro, lacera le basi della relazione. E questo, dottore, non lo si risolve con qualche punto dato distrattamente come da routine. Lo si risolve con mesi, a volte anni di duro lavoro per ritrovarsi.
Dottore vorrei sapere da lei che ama così tanto l’assenza di dolore, se può darmi qualcosa contro il dolore di non ricordare l’odore di mia figlia perchè quando me l’hanno finalmente messa tra le braccia era vestita con un vestito che non avevo mai visto e dalla pelle emanava odore di profumo e petrolati. Dimmi se c’è, dottore, un anestetico contro il dolore di un allattamento che fatica a prendere il via perchè è mancato il riconoscimento. Dimmi se esiste, dottore, una soluzione chimica perfetta per non sentire tutto quel dolore accumulato che quel neonato che ti ritrovi in braccio ti legge nell’anima, piangendolo senza posa.
Sai che penso, dottore? che l’unica anestesia che mi ha fatto sentire viva, che ha acquietato tutto questo dolore è stato lo smuovere profondo della mia energia più atavica quando la testa della mia bambina ha iniziato a scendere ed ho sentito tutto il mio corpo rispondere finalmente a lei, a noi.
Quel momento, quelle spinte così naturali, perchè sentivo lei che mi guidava da dentro, è ciò che mi ha fatto scoprire quanto fossi forte. Che mi ha fatto sentire che potevo riprendermi il mio sentire e la mia dignità, così perfettamente puliti e avvolti in tessuti sterili da rendere sterile anche l’esplodere della vita.
Mio marito, devastato da tutto quel dolore e dalla sua impotenza, poi mi dirà che in quel momento il dolore era sparito, che era sparita quella donna sofferente ed umiliata e che davanti a lui c’era di nuovo la sua sposa, forte come una tigre, che sapeva improvvisamente cosa fare.
Ma tu, dottore, cosa ne sai di quel momento? Eppure fai di tutto per convincere le donne a non sentirlo, a sentirlo meno. E alla fine ti lasci pure andare in un’esclamazione “viva la peridurale!” trasportato da un entusiasmo incosciente che sa di autoaffermazione.
E sembri, dottore, così sicuro di poter migliorare ciò che Dio ha creato, che non ti accorgi che sei lo strumento tramite cui si avvera la maledizione “tu, donna, partorirai con dolore”.
Dottore tu inganni te stesso e, quel che è peggio, inganni le donne, le famiglie.
Perchè il dolore vero, dottore, non si cancella con un’iniezione. Si cancella con il rispetto e la fiducia nelle donne e nella natura.
Si cancella stando in attesa ed intervenendo davvero soltanto quando c’è bisogno.
Si allevia facendo i medici ed occupandosi dei casi di patologia.
Conserva, dottore, la tua preziosa anestesia per i casi in cui davvero serve. E alle altre donne, dottore, aiuta a somministrare silenzio, rispetto, considerazione, conforto, presenza, pazienza, contatto, fiducia, stima. Ti stupirai, dottore, dei grandi risultati che si possono avere. E di quanto la pubblica sanità risparmierebbe.
N.D.A. contrariamente al mio solito, questo posto ho scelto che fosse molto personale. Oggi è il 5° compleanno della mia bambina e vorrei condividere questa riflessione che nasce da quell’esperienza nell’intento che sia utile ad altre donne. Non mi riferisco a casi di evidente patologia.
Far luce sul parto
La notizia è riportata da ANSA qualche giorno dopo.
Il ginecologo si è tolto i guanti in silenzio, ha salutato l’arrivo di una nuova vita e di una nuova mamma come fa da anni e neppure per un attimo ha pensato che le luci di un telefonino potessero accendere per lui le luci della ribalta.
Eh, già perchè questo gesto che a tanti è parso eroico per lui è la normalità:
Marco Santini, questo il suo nome, ha trascorso una vita a far luce sul parto. A mettere in luce le competenze della donna, del bambino, il linguaggio sconosciuto e potente che c’è tra loro fin dall’inizio. A far luce sul poter partorire in sicurezza e al contempo nei modi e nei tempi che la Natura comanda. A far luce sulle esigenze della famiglia che sta cambiando nel momento del parto, all’importanza della presenza del papà in ogni momento e di fratellini e sorelline maggiori nei giorni subito a seguire.
Marco Santini è il ginecologo che ha inventato il Centro Nascite La Margherita. Questo
Centro, questo suo figlio speciale è stato il primo in Italia ad accogliere i parti fisiologici come una grande casa.
Marco ne ha perfino disegnato la struttura, ne ha voluto le forme circolari, consapevole che il cerchio è la forma più adatta alla vita che arriva, ad accogliere la femminilità ed il suo potere generatorio. Cinque grandi sale parto che sono anche sale degenza, dotate di ogni strumento per facilitare il parto e per mettere a proprio agio le donne (vasca per il parto in acqua, corde appese al soffitto, sgabelli, palle ginniche e chi più ne ha più ne metta), nessun orario di visita “blindato”, possibilità per il papà ed i fratellini di pernottare con la mamma e di far famiglia da subito. Una grande cucina comune dove si mangia a tavola, si può fare un caffè, sedersi in poltrona e preparare una tisana mentre si allatta.
Il Centro Nascite la Margherita è un’eccellenza a livello europero: tirocinanti e studenti vi arrivano tramite progetti universitari per conoscerlo, capirlo e studiarlo.
Marco Santini ha fatto luce sul parto per vent’anni ed ora risponde incredulo alle richieste di intervista per la sutura alla luce dei cellulari. Lui, il “ginecologo della fisiologia” come spesso viene chiamato quasi con scherno a Careggi, famoso per la sutura di un cesareo alla luce di un telefonino.
Certo è stato bravo, a sfruttare la tecnologia e la presenza dei suoi studenti.
Ma è stato ancora più bravo a far luce, per tanto tempo ed in modo tanto ostinato, sulle condizioni e le necessità del parto e di chi partorisce.
(Veronica)