Categoria: sostenere le famiglie
Cantate Mamme!
Parliamo ai nostri bimbi fin da quando sono nella nostra pancia, quando ancora non li abbiamo incontrati ma già li conosciamo. Gli parliamo e anche cantiamo per loro, lo facciamo spontaneamente, perché sappiamo che in qualche modo ci possono sentire e anche capire. Da dove ci viene questa sicurezza? E’ l’istinto della mamma, è la profonda saggezza del nostro corpo che ci porta a ricercare una relazione con il nostro bambino fin dal momento che sappiamo, sentiamo, della sua presenza. Ed è vero, il nostro bambino, là dentro, al sicuro, nel suo mondo tutto speciale, può sentirci. Non solo, lui ci sente in un modo totale e totalizzante. Sente la musica della sua mamma. Si, perché ogni donna in gravidanza è totalmente Musica, con i suoi movimenti, i suoni del corpo, il ritmo del respiro, il battito del cuore… e naturalmente la sua voce. La voce della mamma è la musica più bella per ogni bambino. Il suono arriva da dentro e da fuori, si trasmette attraverso le strutture del corpo materno e nel liquido amniotico ogni vibrazione giunge al piccolo corpicino formandolo e in-formandolo. I suoni contribuiscono alla formazione della sua struttura fisica e nervosa; esperienza prima ed attivante per gli organi di senso, diventa esperienza affettivo-relazionale. Il bambino “sente” la nostra voce ricevendola con tutto il suo corpo, e tramite essa sente tutta l’emozione che proviamo mentre gli parliamo o gli cantiamo. Il feto cresce all’interno della pancia della mamma, potremmo dire che più vicino di così non si può, ma il contatto con lei avviene tramite il dialogo sonoro fatto di suoni e movimenti: il feto si muove, reagisce, ‘risponde’, quando sente la voce della mamma, e anche del papà.
Il contatto mamma-bambino attraverso la voce è un contatto magico, musicale, fisico, spirituale. Permette di costruire una relazione sonora che dura tutta la gravidanza e oltre. Il bimbo riconoscerà la voce della mamma e anche le melodie che gli cantava, e sarà per lui tranquillizzante perché gli riattiverà uno stato di sicurezza e calma.
La voce della mamma che parla, o canta, al suo piccolo, è una voce particolare: l’essere indirizzata a lui, la sua intenzionalità comunicativa, le conferisce caratteristiche timbriche particolari e riconoscibili dal bambino.
La nostra voce, quando ci rivolgiamo al nostro bambino, ha un colore e un calore speciale, è avvolgente, e regala al bimbo l’esperienza di essere pensato e immaginato, accolto e amato.
Quindi cantate mamme! Il vostro canto è un regalo per voi e per il vostro bambino, una “coccola sonora” tutta vostra.
Cantate per voi, per godere della musicalità tutta speciale della gravidanza, perché il canto rilassa, scioglie le tensioni, regolarizza il respiro, attenua il dolore.
Cantate per ascoltarvi, per contattare la vostra emotività, fare esperienza piena della magia di diventare mamma, ad un livello che va oltre il pensiero razionale.
Cantate ai vostri bimbi in pancia, che vi sentono, vi esperiscono, e una volta nati vi ri-conoscono nella voce, e fanno esperienza di continuità. Lasciate che la vostra Musica accompagni la vostra gravidanza e arricchisca lo sviluppo del vostro bambino.
Cantate ai vostri bimbi tenendoli in collo, ancora meglio in fascia, avvolgeteli con le vostre vibrazioni, coinvolgeteli nella musicalità della vostra relazione, che non sarà solo nella voce che uscirà dalla vostra bocca ma nel contatto con il corpo vibrante, il ritmo e il movimento, il massaggio cadenzato del respiro.
E infine, cantate anche con il papà, così che anche nel suono si uniscano le energie del femminile e del maschile, che il bimbo senta la forza e la presenza di entrambi, di questa famiglia che nasce.
(Tiziana)
Gli esperti di Puro Contatto: Tiziana Pericoli
Dott. Tiziana Pericoli
Psicologa, Counsellor, Psicoterapeuta della Gestalt.
Si occupa di gestione dell’emotività e delle difficoltà relazionali, lavora in psicoterapia individuale e conduce gruppi esperienziali.
Ha approfondito le potenzialità della voce come strumento terapeutico di espressione ed elaborazione.
Si occupa in particolare di sostegno psicologico in gravidanza, percorsi di rilassamento e pratica vocale.
Con il suo progetto “Mamme In-Canto” promuove l’uso della voce, associata a respirazione e movimento, per la gravidanza, il parto e la relazione con i neonati. Conduce incontri di gruppo “Canto In Pancia” e “Canto In Fascia”, in collaborazione con Puro Contatto.
contatti:333/5985035
Studio Pericoli
Via Fabroni 7
Firenze

Ti porto…al sicuro
Siamo in estate, e come ogni estate piano piano si viene sommersi – è proprio il caso di dirlo – da pubblicità di supporti per il babywearing “adatti a portare in acqua”.
Questo mi fa sentire l’esigenza di scrivere di sicurezza che è un argomento prezioso ed importante e, prendendo la palla al balzo, parlarne allargando a più situazioni la mia riflessione.
Dividerò quindi questo articolo in sezioni, cosicché sia di facile consultazione anche parziale a seconda dell’interesse di ciascuno. Iniziamo…
SUPPORTI E LEGATURE
per portare in modo sano e sicuro ci sono numerosi supporti ergonomici e numerose tecniche utilizzabili a seconda delle necessità e preferenze. Non è questo il luogo per dilungarsi in tempi e modi d’uso ma mi preme sottolineare delle caratteristiche necessarie ad entrambi per essere considerati sicuri e corretti.
Fasce portabebè e tecniche di legatura
Le fasce usate per portare i bambini non devono mai avere cuciture che ne interrompano la trama (es. non si possono unire due pezzi di stoffa per ottenere la lunghezza necessaria). In caso di fasce “ring sling” (ovvero quelle corte con l’anello), è importante che l’anello non presenti saldature ma che sia “un pezzo unico” e che i bordi siano facilmente regolabili per trazione (i bordi imbottiti, ad esempio sono assolutamente impossibili da tirare a dovere) perché una fascia poco tirata è una fascia che non sostiene a sufficienza e che quindi potenzialmente provoca l’accartocciarsi del bimbo su se stesso con conseguente compressione toracica che ostacola la respirazione.
Le fasce devono essere colorate con colorazioni che non contengano metalli pesanti o elementi potenzialmente tossici (i bambini le ciucciano tantissimo!). A garanzia delle colorazioni potremmo non accontentarci degli standard di importazione dei tessuti in europa ma riferirsi a certificazioni ad hoc (la più “famosa” è, probabilmente, OEKO).
Le legature scelte devono garantire la posizione corretta del bambino (verticale, schiena a C, ginocchia più alte del sedere, piante dei piedi parallele al suolo, pochissima distanza tra portato e portatore (al massimo un pugno appoggiato al petto dalla parte delle 4 dita), almeno due dita tra mento e torace del bambino, gambette aperte ma non iperdivaricate (una “prova” utile a capire quale sia la posizione corretta del nostro bimbo è metterlo supino su una superficie semirigida: lui solleverà d’istinto le gambette verso la pancia e quella posizione è la sua posizione naturale e quindi da rispettare/riprodurre durante la legatura).
Una piccola digressione merita la posizione cosiddetta “a culla”.
(Dal mio contributo su “I cuccioli non dormono da soli” di A.Bortolotti. Bibliografia nel testo originale).
Gli studi e le statistiche sul rischio di morte in fascia si riferiscono nella loro totalità al cattivo uso di questa posizione. Si tratta di una posizione in cui il bebè viene adagiato sdraiato sulla stoffa, con il proprio fianco a contatto con il torace del portatore. La posizione è corretta quando il pancino è rivolto verso l’alto, la testa è più in alto del sedere, le ginocchia rannicchiate verso la pancia, la stoffa ben tesa in modo che la colonna vertebrale e la testina siano sostenute in asse e che il piccolo non si “accartocci” né affondi nella stoffa. Il problema è che la posizione corretta è piuttosto difficile da mantenersi, principalmente perchè i neonati, d’istinto, si girano verso il portatore. In questa posizione ruotata, la stoffa produce una tensione forte sul torace che può impedire il corretto movimento toracico della respirazione. Anche per quanto riguarda la prevenzione alla displasia, questa posizione non è consigliabile perchè allo stesso modo, la stoffa – nel momento dell’inevitabile torsione del bambino verso il genitore, tende a schiacciare verso l’interno la gambetta (e quindi l’incastro del femore con l’anca non viene mantenuto nell’angolazione ottimale).
Supporti strutturati e semi strutturati
Normalmente i supporti prodotti dalle aziende specializzate in babywearing corrispondono ai canoni di sicurezza necessari (la comodità e le caratteristiche delle varie proposte esulano dall’argomento quindi non ne tratterò). Per quanto riguarda i supporti autoprodotti o prodotti da piccoli artigiani è necessario un controllo accurato delle cuciture e delle chiusure. Un operatore professionale di babywearing (consulente, istruttore etc) potrà aiutarvi a capire se un supporto è ben fatto e sicuro.
LUOGHI ED ATTIVITÀ
Le semplici regole del buon senso basterebbero ad indicare quali luoghi o quali attività siano compatibili con la presenza di un bambino piccolo in primis e con il babywearing in particolare. Ma, purtroppo, la bella sensazione di avere le mani libere ed il bambino saldamente assicurato a noi ci porta spesso ad andare oltre il buon senso, per cui non fa male riportare alcune indicazioni di base.
Mare, laghi, fiumi
Per portare in questi luoghi “vacanzieri”, valgono le regole generali della sicurezza.
Buona norma è andare in spiaggia con almeno un altro adulto oppure in una spiaggia 
provvista del servizio di bagnino. Malori improvvisi ed inattesi possono sempre capitare per cui questa regola vale in genere anche per gli adulti senza bambini.
Fatta questa premessa, una fascia al mare può essere
comodissima: per le nanne tranquille, per una passeggiata sul bagnasciuga…o anche come copertina, amaca, parasole, paravento!
L’importante è non usare fasce o supporti per il babywearing in acqua.Portare un bambino legato a noi in acqua ci dà un falso senso di sicurezza: abbiamo le mani libere per magari star dietro ad un fratellino più grande o ad un amico peloso, non si corre il rischio che “ci scivoli” e il bambino sta tranquillo. Però questo senso di sicurezza nasconde una grande insidia. In caso che l’adulto scivoli o – peggio – abbia un malessere, il bambino rimane nell’impossibilità totale di attivare i propri riflessi salvavita e le proprie capacità di andare naturalmente verso la superficie.
Legato, immobilizzato è assolutamente passivo e rimane schiacciato dal corpo del genitore. Anche se l’incidente viene rapidamente risolto, i tempi per soccorrere il bambino e stimolarne la ripresa della respirazione si fanno terribilmente lunghi. Chi sa soccorrere sa quanto sia prezioso ogni secondo: dover aprire un supporto oppure estrarre il bambino da una legatura può compromettere davvero la sua vita. Se invece il bambino vi scivola dalle braccia per qualsiasi motivo (perchè è solo scivolato, perché siete scivolati voi, per un vostro malessere etc) si prenderà uno spavento e piangerà un poco subito dopo ma in acqua il suo istinto gli permetterà di andare verso la superficie e di essere soccorso in tempi brevissimi ed in modo efficace.
Montagna
Niente di meglio di una bella passeggiata nel fresco di un bosco o nei prati montani in cui possiamo incontrare tanti animali e vedere fiori ed alberi bellissimi! E niente di meglio che andarci in fascia o in marsupio per la comodità di grandi e piccini. Ovviamente, anche in questo caso, vige la regola del secondo adulto. In due adulti possiamo fare belle passeggiate e anche lunghe camminate in percorsi da soft trekking. Ovviamente non è assolutamente il caso di portare in una ferrata o in
arrampicata libera un bambino in fascia o marsupio. Per pur
esperti che siate, il rischio di cadere trascinando con voi il vostro bambino è grande e
costante.
Certe esperienze sono belle anche perché si fatica per viverle in allenamento e capacità. Non precorriamo i tempi e lasciamo ai nostri figli la possibilità di viverle grazie al proprio percorso di vita.
Sport vari
In generale qualsiasi sport che non sia “soft” non deve essere praticato con i bambini in fascia sia per la loro sicurezza che per il benessere della nostra schiena che verrebbe sollecitata in modo esagerato: sì a camminate e a piccoli piegamenti corretti…e magari anche a qualche passo di danza (sempre relativo anche al tipo di danza che scegliamo)! Scegliamo movimenti o attività a cui il nostro corpo sia possibilmente allenato ed abituato ed eseguiamoli in proporzione alla nostra possibilità di controllo della situazione e di sicurezza per portato e portatore. Non starò certo a prendermi la briga né il fastidio mentale di fare un elenco dettagliato di attività “proibite” o sconsigliate perché sono convinta che ogni genitore abbia la piena consapevolezza di sé e delle sue possibilità e che possa anteporre il buon senso al proprio bisogno di fare con il suo bambino ciò che ha sempre fatto prima. Penso che ascoltarsi ed osservare sé stessi ed il proprio bambino, valutare con serenità e avere un buon grado di prudenza siano elementi sufficienti a prendere decisioni sensate.
Mezzi di trasporto
Non si portano i bambini in fascia in nessun mezzo di trasporto dal cavallo al cammello (sì, sono esseri viventi e non solo mezzi di trasporto ma spesso li usiamo come tali e come tali stanno in questo’elenco), dalla barca alla bici, dalla moto all’auto.
Ci sono ovviamente alcune eccezioni:
Autobus e Pullman, treni e metropolitane non hanno, generalmente, sedili di sicurezza per bambini piccoli. IN questo caso è più sicuro usare la fascia delle braccia perché questo ci mette nelle condizioni di non mollare la presa in caso di reazione ad un urto e di usare le nostre braccia come stabilizzatori di posizione. Lo stesso concetto vale anche nelle situazioni estreme ed ASSOLUTAMENTE OCCASIONALI in cui una macchina non ci offra la sicurezza richiesta: non mi riferisco certo all’auto dello zio o dell’amica che è senza seggiolino (in quel caso è responsabilità del genitore portare con sé ed usare SEMPRE i necessari strumenti di sicurezza per il proprio bambino, anche nelle macchine altrui!) ma ad esempio del servizio taxi di un Paese che non prevede sedute di sicurezza (per cui non sia possibile in alcuna maniera richiedere un taxi dotato di sedute di sicurezza) ed in cui per motivi validi non siete riusciti a portare ovetto o seggiolino da casa.
In aereo è possibile usare la fascia dal momento dello spegnimento del segnale “allacciate le cinture”.
Spesso i pericoli si nascondono dietro le situazioni più piacevoli e spensierate: l’amica fascia non si può proprio lasciare fuori dalla valigia…ma non scordiamo neppure l’amico buon senso.
Buon babywearing!
(Veronica)
grazie ad Adele Ricci e a Anamaria Militaru Photography per la gentile concessione della foto in spiaggia
Tra lacrime e sorrisi

Sono ormai quasi 4 anni che incontro i genitori. Ed in modo ricorrente, perché la vita è abitudinaria anche quando si tratta di piccole o grandi sofferenze, incontro un dolore speciale: legato al parto, ad un allattamento mancato, ad una perdita in famiglia, ad una solitudine, ad un problema inatteso e troppo grande.
Mamme e papà tristi.
Mamme e papà che si sforzano di sorridere al loro piccolo, un po’ per proteggerlo un po’ perché è davvero difficile, per la nostra cultura, conciliare la sofferenza con la gioia della nascita, ammettere di essere tristi, di essere in difficoltà “in un momento che DEVE essere tanto felice”.
Come se i sentimenti avessero uno spazio limitato nel nostro cuore. Come se dove sta la gioia non possa stare anche il dolore.
Ma l’animo umano è grande, immenso e frastagliato.
E…sì, ci sta tutto nel cuore.
Ci sta la gioia.
Ci sta il dolore.
Ci sta (purtroppo) il senso di colpa.
Ci sta l’amore (e su quello puntiamo sempre).
Arriviamo ad essere genitori con in testa un modello assoluto: il genitore felice, il genitore forte, il genitore positivo, il genitore protettivo.
Da dove sia venuto esattamente questo modello non lo so dire. Forse qualche amico antropologo o psicologo potrebbe aiutarci in questo…
Quello che so è che è un modello pericoloso per tutti.
Per i genitori, perché impiegano le proprie forze per creare un’immagine positiva di se stessi invece che per elaborare la propria sofferenza.
Fino a che non diviene un’abitudine: l’immagine si fa spessa e resistente ed il dolore si nutre e cresce e rimane, silenzioso e minaccioso, nascosto là sotto, ad allevare il suo erede più crudele, il senso di colpa.
Per i bambini, perché ricevono un messaggio contrastante: come può il sorriso che vedono sposarsi con il disagio che sentono?
Eh già, non importa quanto spessa sia la crosta: i bambini vanno oltre, scovano il clandestino e lo tengono d’occhio…anzi: lo tengono a pelle, perché con quella arrivano bene fin negli angoli più misteriosi del nostro animo.
“Il bambino balinese è portato sia liberamente sul fianco […] sia dentro un’imbracatura. […] Il contatto con il corpo materno gli fornisce direttamente l’indicazione di fidarsi del mondo esterno o di temerlo: nonostante la madre riesca a controllarsi in modo da sorridere e mostrarsi gentile al forestiero o a chi appartiene ad una casta superiore, senza che la sua espressione cortese lasci trasparire il minimo timore, le urla del bambino che essa tiene in braccio ne tradiscono l’intimo panico” (Balinese Character” G. Bateson, M. Mead, 1942 – “Il linguaggio della Pelle”, A. Montagu 1989)
E cosa può comprendere un bambino da due messaggi tanto contrastanti? Come può figurarsi un bambino la complessità d’animo di un adulto?
Si chiederà se la causa del dolore sia lui? Si chiederà perché i genitori sorridono quando stanno male?
Non possiamo dirlo: certo è che questi bimbi spesso piangono in modo incomprensibile ed inconsolabile.
Magari per dar voce al dolore dei genitori costretto al silenzio o magari per dar voce all’incertezza, al senso di timore che una situazione così complicata suscita in loro.
Ma davvero dobbiamo per forza essere sempre forti e sorridenti per il bene dei nostri bambini?
Davvero i nostri bambini hanno bisogno di genitori che li tengano lontani dall’ombra del dolore anche a costo di mentire?
Davvero i nostri bambini hanno bisogno di un sorriso a tutti i costi, anche quando abbiamo il nodo in gola?
Queste sono domande a cui ciascuno risponderà secondo le priorità del suo cuore.
Io, però, oggi voglio raccontare che c’è anche un altro modo.
Un’altra strada che rimette in gioco tutto: la nostra prospettiva, le nostre possibilità di considerare, condividere, conoscere e farci conoscere, dare e ricevere fiducia.
Raccontare.
Sembra forse una cosa sciocca l’idea di parlare con un neonato.
Eppure è magica.
I bambini ascoltano.
I bambini comprendono i nostri “sto soffrendo” e soprattutto i nostri “non è colpa tua”.
Li comprendono da subito, fin da dentro la pancia.
Non so se sia il potere magico delle parole o se la mancanza di maschere lasci fluire l’energia in modo diretto ed efficace.
Ma comprendono.
E cosa può comprendere un bambino nel momento in cui la sua mamma o il suo papà apre il proprio cuore e gli racconta di un dolore?
Forse sentirà che il suo amato genitore si fida di lui? Forse sentirà con la sua pelle, con la sua magia, tutta la sincerità del mondo?
Ancora una volta, non possiamo dirlo: certo è che questi bimbi spesso smettono di piangere ed ascoltano.
Certo è, anche, che il dolore narrato, smascherato, portato alla luce, piano piano si fa più tenue, come un’ombra della notte all’alba.
Perché, raccontando il nostro dolore, concentriamo su di lui le nostre forze e ci concediamo la chance di poterlo combattere per lo meno ad armi pari.
“Affinché l’avvenimento piu comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo […] Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi e mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo ne coda, e un’addizione interminabile e monotona. […] Vivere è questo. Ma quando si racconta la vita, tutto cambia” ( “La nausea” J.P. Sartre, 1932)
Non è una ricetta, non è (forse) niente di scientifico.
Ma da chi amiamo preferiamo la sincerità alla perfezione, la fiducia nelle nostre forze alla protezione che dà per scontato che siamo “troppo poco” per affrontare la vita. Preferiamo che l’amato si metta a nudo, mostrando le sue imperfezioni e le sue debolezze, invece che accompagnarci con una creazione illusoria di forza, equilibrio e serenità costante.
E per i bambini, forse, non è diverso. Forse anche a loro non servono genitori perfetti. Forse è più nutriente la sincerità.
(Veronica)
Ma tu che ne pensi della GPA?
Ultimamente tanti dei miei contatti, genitori o colleghi, mi hanno posto la stessa domanda: “ma te cosa ne pensi della GPA (Gestazione Per Altri)?”
Ma come si fa ad avere un solo pensiero, a prendere una sola posizione definitiva e limitata, pro o contro, su qualcosa che ha così tante sfaccettature e coinvolge così tanti aspetti?
Perché c’è il punto di vista della donna.
Perché c’è il punto di vista dei genitori programmati.
Perché c’è il punto di vista del bambino.
Perché c’è il punto di vista sociale.
Perché c’è il punto di vista emotivo personale di ognuno.
Perché c’è il punto di vista della filosofia della scienza.
Troppi punti di vista per un solo pensiero.
Perciò, oggi mi trovo a scrivere di questo argomento.
Per mettere in fila i pensieri e rispondere a quelle domande non con una posizione ma con tante riflessioni e con tante sfaccettature del mio sentire, come questo argomento richiede.
Ma chi pone una domanda si rende disponibile a sentire la risposta nella sua completezza. Anche in un post lungo e noioso come sarà questo. Altrimenti meglio neppure cominciare.
E parlerò di GPA che NON significa parlare di omogenitorialità se non di sfuggita.
Ci tengo a precisare che per me i genitori sono coloro che hanno amore e rispetto per i loro figli. E che queste due condizioni non sono legate MAI all’orientamento sessuale. Approfitto per avvertire che qualsiasi commento di carattere omofobico, violento o aggressivo non verrà autorizzato.

La GPA è una pratica vecchia quanto il mondo e, come tale, non scardinabile né contenibile neppure volendo: finché ci saranno donne in grado di procreare e disposte o anche, peggio, costrette, a farlo – per vari motivi – per altre persone, il modo di concludere l’operazione si troverebbe.
Se un uomo riconosce un neonato come suo e la madre rinuncia alla maternità, quel neonato sarà affidato al padre. Che quell’uomo sia sposato con un’altra donna, con un altro uomo o single, il bambino è suo. Si comprende, perciò come a livello legale sia inutile qualsiasi proibizione di questa pratica.
Dove voglio arrivare con questo? Voglio arrivare a dire che, per i primi 4 punti di vista che ho elencato, l’unica strada che io sento come sensata e costruttiva da percorrere sia regolamentare la pratica anche IN ITALIA per creare garanzie per tutti.
Per la donna, perché si eviterebbero le situazioni di sfruttamento o di violenza (che oggi tristemente abbondano nei paesi del terzo mondo). Perché sarebbe protetta nei suoi diritti di abortire o meno in caso si rivelino delle patologie, o di tenere o meno il bambino in caso non riesca a raggiungere quella che chiamano “distaccamento emotivo”.
Per i genitori programmati, perché potrebbero vivere l’intera gravidanza da vicino, presenti, conoscendo e facendosi conoscere dal loro bambino.
Per i bambini, perché andrebbero a finire tra le braccia di persone note, di cui conoscono la voce e la pesantezza della mano sulla pancia.
Ancora per i bambini, perché potrebbero trovare tutela qualora qualcosa vada storto ed evitare l’abbandono – o per lo meno l’abbandono economico – come è successo per il piccolo Anton.
Non sta certo a me mettermi a discutere sul desiderio di una coppia di volere un figlio né sul diritto di una donna di far quel che vuole con il suo corpo. Non sta a me perché ho desiderato tanto essere madre e so che è un desiderio potente che, se non esaudito, lascia un enorme vuoto. E non sta a me perché sono una donna e, nel momento in cui mi sono sentita privata – proprio in sala parto – della libertà di decidere su cosa fare del mio corpo, mi sono sentita come una tigre in gabbia.
Però mi preme mettermi – come tento sempre di fare – nei panni del bambino.
Trovo interessante e limitativo come tutti guardino avanti negli anni affermando – supportati da numerosi ed autorevoli studi – che i bimbi nati con GPA, crescendo, non riportano danni o conseguenze.
Come se il dolore provato non contasse o non dovesse essere considerato solo perché poi passa.
Considero la capacità di resilienza una delle più grandi risorse dell’essere umano. Sono certa che questi bambini, desiderati ed amati, vivano vite felici.
Ma questo non mi distoglie – e gli studi sulla vita intrauterina e perinatale mi confortano – che il neonato sia privato in modo programmato di ciò che si aspetta fuori dall’utero e di una relazione d’amore profondo dentro la pancia di chi lo porta. Queste privazioni provocano un dolore, ancorché passeggero, che secondo me deve essere onorato, considerato, ascoltato.
E l’unico modo di limitare questi disagi, a parer mio, è che i genitori programmati non debbano andare dall’altra parte del mondo a trovarsi una mamma portatrice e perciò rinunciare a starle accanto nel tempo della gestazione: la possibilità di stare vicino casa e di farsi conoscere precocemente da quel bambino che prenderanno in braccio (ci sono tanti modi, primo fra tutti potrebbe essere un percorso di aptonomia), darebbe sicuramente sollievo ai bambini , di cui tanto sembriamo importarci.
Ancora: le coppie che decidessero di affrontare questo percorso potrebbero essere seguite, accompagnate ed informate ALMENO quanto ogni coppia che aspetta un bambino. E sostenute nei primi tempi dopo la nascita.
Si potrebbero aumentare le possibilità – attraverso la sensibilizzazione sulle caratteristiche del passaggio da dentro a fuori la pancia – di veder aumentati i parti naturali, di offrire un “atterraggio” graduale e consapevole dei bambini nel nostro mondo attraverso pratiche come il pelle a pelle con la portatrice e con i genitori programmati e forse – chissà – l’allattamento anche parziale almeno per il tempo dell’assunzione del colostro.
Insomma, per quanto riguarda questi aspetti penso che vietare, multare, mettere fuori legge non ottenga se non odio, aumento dei casi clandestini o per vie non ufficiali e del conseguente sfruttamento delle donne e mancanza di tutela per i bambini.
Il mio punto di vista emotivo lo tralascio. Perché non è rilevante, perché non stimolerebbe alcuna riflessione ma l’ennesimo dramma sentimentale come quelli di cui raccontano gli articoli dei giornali, che tanto lucrano su questo aspetto e tanto hanno distrutto di coscienza sociale e di giornalismo di qualità.
Infine, sul punto di vista della filosofia della scienza e della medicina, posso dire che sento necessario il fermarsi, il porsi la domanda seriamente sui quali confini sia giusto tracciare nell’intervento dell’uomo sui processi della vita. così come facciamo per i processi della malattia, della morte o della dignità dell’uomo.
Credo che sia necessario porsi la domanda se sia eticamente corretto investire tanto lavoro e tante energie per modificare un processo perfetto come la nascita e renderlo adatto anche ai casi per cui, nonostante la sua perfezione circolare, non funzioni.
Modificare la perfezione, non è renderla imperfetta?
Anche le medicine sono oltre la natura, anche il guarire o l’accompagnare a morire con dignità sono contro natura, è vero. Ma qui non si discute l’intervento dell’uomo sulla natura in processi almeno apparentemente affetti da “errori” (la malattia è un errore nel processo di nascita – crescita – maturazione – invecchiamento – morte) ma il suo intervento in un processo perfetto ed ottimizzato.
Modificare la perfezione in nome del desiderio è giusto? è sbagliato? è accettabile?
Questo probabilmente non influirà sul perdurare della pratica (appunto come già detto, vecchia quanto il mondo) ma credo che PER ME siano state le domande chiave nel farmi un’opinione etica. Forse gli antichi l’avrebbero chiamata Hybris.
PER ME come persona, come essere umano, come umano pensante la GPA è un po’ troppo, troppo oltre i limiti che credo l’uomo debba rispettare.
(E già vedo occhi strabuzzati: “Ma come… è favorevole alla legalizzazione e alla regolamentazione legislativa della GPA e non le piace la GPA?!”)
Ma non sono un medico, non sono una scienziata e non sono nemmeno una filosofa.
Quindi, detto ciò, non credo che la mia opinione debba essere per forza quella giusta, né che debba tendere all’universale, né tantomeno che debba collocarsi alle basi di una regolamentazione legislativa.
Per questo, il mio intento è di non giudicare ma di lavorare, stavolta come operatrice, seppur nel mio piccolo, perché ci siano le migliori condizioni di accoglienza sulla Terra di questi bambini e le migliori condizioni di accompagnare i loro genitori, biologici e/o programmati, alla conoscenza dei loro bisogni e del loro modo di comunicarli.
E tra queste condizioni c’è la vicinanza fin dal concepimento.
In alternativa (e come sarebbe meglio “a complemento”!) il contatto.
Specie per queste famiglie sarà importante poter scardinare i pregiudizi comuni sul “viziare” i neonati: è attraverso la pelle che ci si conosce, che ci si impara a comprendere e ad amare e che si nutre il processo di cura.
Cura di una perdita che comunque il bambino subisce. Cura delle storie che si accumulano in una famiglia così allargata: i genitori programmati e le loro famiglie, la donatrice, la portatrice, il bambino. Perché ogni nascita, comunque essa sia e comunque avvenga, in ogni parte del Mondo, ha il potere di dare origine ad un potentissimo e meraviglioso processo di cura dei suoi attori.
La pelle cura e nutre ogni relazione, ogni cammino.
Alla fine di questo lungo articolo, esausta per l’afflato di violenza che circola su questo argomento ormai da troppo tempo, vorrei solo concludere: lasciate spazio all’amore.
All’amore di chi genera e di chi attende, all’amore di chi raccoglie i figli del mondo abbandonati e calpestati, all’amore di chi accompagna la nascita perché avvenga nel miglior modo possibile, all’amore di chi può pensare leggi a tutela dei più fragili e dell’amore stesso.
Perché avere una propria posizione etica e filosofica non si trasformi mai in violenza, mai in costrizione, mai in negazione consapevole dei diritti delle persone.
(Veronica)
Le grandi mani di papà

Le mani di papà sono grandi e forti
rassicurano e proteggono.
E poi sanno farsi leggere e
e sanno tuffarsi nelle profondità delle emozioni.
Le mani di papà sanno aspettare
perché hanno aspettato lunghi mesi
sanno tenere con cura
e sollevare fin sopra le nuvole.
Le mani di papà sanno scivolare
hanno scivolato a lungo
sulla luna piena del pancione
cercando di conoscere
senza l’aiuto degli occhi,
guidate solo dal cuore.
Le mani di papà, che bello incontrarle di nuovo!
Forse un po’ ruvide, certo…
ma non lo sono anche certi frutti dolcissimi?
Le mani di papà lavorano
ma proprio lì,
tra il palmo e le dita
non smettono mai di stringere e proteggere
il loro grande, grandissimo amore.
(Veronica)
grazie a papà Emiljan, al piccolo Orlando e a mamma Francesca per la foto meravigliosa
Elogio della lentezza, il triplo sostegno sulla schiena (ancora di babywearing)
I neonati ci chiedono di rallentare.
È spesso uno shock doversi abituare ad un ritmo differente, a tempi dilatati, a momenti in cui la lentezza è l’unica risorsa possibile.
Nutrire i neonati richiede tempo e pazienza, cullarli per farli dormire richiede tempo e calma, cambiarli senza farli immancabilmente strillare richiede tempo e pacatezza. Porgere loro i primi oggetti, condividere con loro i momenti di meraviglia davanti ad un raggio di sole, ad un fazzoletto colorato, alla chioma di un albero mossa dal vento, richiede tempo e disponibilità.
Tutto, in genere, richiede tempo, tanto tempo.
Noi genitori ci abituiamo (o almeno tentiamo di abituarci) a dar valore al tempo e alla lentezza, perchè ogni momento, quando si va lenti, è prezioso per arrivare in fondo a progetti ed obiettivi.
E un processo di adattamento difficile, spesso anche sofferto, per noi adulti abituati a correre.
In questo periodo il babywearing ci accompagna a trovare il ritmo comune, lento ed accurato. Impariamo a tirare bene la stoffa per sostenere
adeguatamente la schiena, a curare le sedute, il sostegno alle gambette, il rispetto della posizione fisiologica. Triplo sostegno, x semplice, x fasciata…legature per il pancia a pancia, ma anche legature “di pancia” che esprimono i nostri bisogni ed al contempo li acquietano, che hanno bisogno di accuratezza, di fasce generosamente lunghe, di pazienza, di movimenti lenti e pazienti.
Ma i primi mesi passano anche più svelti del previsto e piano piano tutto si assesta: i bimbi si saziano più alla svelta, imparano a star seduti, ad intrattenersi un pochino con oggetti e attività, a gattonare, a muovere i primi passi, a pronunciare le prime parole.
Ed in men che non si dica son passati due anni ed il nostro babywearing si è adattato come acqua che scorre ai cambiamenti tanto repentini: l’inizio della competenza motoria richiede legature veloci, “leva e metti” per assecondare il movimento, l’indipendenza, il sali-scendi. Anche noi adulti siamo più o meno tornati ai ritmi rapidi: qualcuno è tornato a lavoro, altri comunque a casa hanno ripreso a fare mille cose, commissioni, giri, ad andare e tornare, uscire, fare e disfare.
La fanno da padrone le ring sul fianco, le fasce corte preannodate, gli zainetti veloci.
È un “allegro andante” al cui ritmo danziamo naturalmente e ci sentiamo a nostro agio perchè è il ritmo che più assomiglia a quello che siamo sempre stati.
Spesso addirittura in questo periodo – dai 10 mesi ai 18/24 mesi – i bambini non vogliono più essere portati se non per brevi momenti sul fianco.
Però, poi, c’è un momento speciale. Un momento in cui i bambini ritornano alla base. Stavolta per scelta consapevole di una modalità che amano e non più per necessità. Sanno camminare e correre, rotolare e saltare con tanta perizia da esserne ormai sicuri, da non dover dimostrare niente né a loro stessi né a chi li circonda. Le competenze che via, via acquisiscono, le novità, le scoperte sono vissute con entusiasmo incredibilmente consapevole. I bambini ben supportati, incoraggiati, sostenuti e rispettati sentono profondamente che d’ora in poi possono arrivare dove vogliono.
È un momento di stabilità.
Ed i genitori come lo vivono?
Ed il babywearing?
Noi genitori spesso rimaniamo sul ritmo rapido: ce lo possiamo ormai permettere, la lentezza è solo un ricordo. Spesso accade che ci scontriamo con il carattere in formazione dei nostri bambini, con la rabbia che loro hanno nel saper fare fisicamente tante cose e non saperle adeguitamente esprimere a parole. Li chiamano i “terrible two”. Un gap incolmabile tra voler fare e poter fare, tra sentire e comunicare. E la fretta non aiuta, i ritmi rapidi spesso creano accumuli di frustrazione che poi sfocia in rabbia. Contenerli è spesso l’unica soluzione, e chi porta ha una risorsa importante: la fascia, oggetto del cuore e di cura.
Ma i bambini sono grandi e non solo pesano di più ma hanno bisogno di una comodità diversa.
Ed allora assistiamo alla magia, alla grande occasione che ci fornisce il babywearing.
Il triplo sostegno, tre strati di tessuto a sostenere un peso non più lieve, ci offre una nuova lentezza.
Una lentezza che non è determinata dalla delicatezza e dal ritmo attutito dei primi tempi.
Una lentezza che è celebrazione dei traguardi ed un riconoscimento importante: il riconoscimento che i nostri piccoli hanno un equilibrio, sanno attendere e sposare la scelta di essere portati che adesso è una scelta di consapevolezza emotiva, di piacere, di bisogno di condivisione e di relazione e non necessariamente di bisogno fisico.
Legare, ora più che mai, è fare qualcosa insieme.
I bambini sono padroni dell’idea di lentezza acquisita per contrario dopo l’esplosione di attività di qualche tempo prima. E l’accettano meglio di noi. Che stentiamo, a volte, a tornare ai movimenti accurati, ai gesti pazienti, ad una legatura che richiede un po’ di tempo in più.
Ed è questa fatica che facciamo che ci racconta quanto preziosa sia l’occasione che ci è offerta.
Tutte le cose belle che al contempo ci affaticano ci conducono al superamento dei nostri limiti, allo scoprire nuove dimensioni, ad arricchirci di un tesoro esperienziale straordinario.
Se ci concediamo al triplo sostegno, dimenticando la fretta e forse la praticità, aprendo la stoffa come se sgranchissimo le nostre ali di profondità troppo rattrappite, fissando e tirando il tessuto tre volte con la dolcezza dell’abbraccio con cui ci stringiamo il nostro bambino sulla schiena…scopriamo una nuova sintonia tra noi, un nuovo conforto, un nuovo passo sicuro.
Il triplo sostegno preme sul petto, luogo delle emozioni, e accorda il respiro di bimbo e genitore.
Ha il potere magico di aprire la valvola dello stress e cacciarlo, come un breve esercizio di meditazione che ha il vantaggio di unirsi alla relazione in un momento incredibilmente nutriente e dolce (e che, nonostante queste due caratteristiche, non fa ingrassare!)
Passa sulle spalle, come un abbraccio, come farebbero le braccia dei nostri bimbi se non ci fosse la fascia. E infine si intreccia sulla schiena, con la ricchezza della nostra storia insieme.
Un regalo prezioso, l’elogio della lentezza.
(Veronica)
“Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice” (aut. ignoto)
Capita, a volte, di incontrare madri e padri che vengono ai corsi di massaggio o in consulenza per imparare ad usare la fascia.
Vengono con un piccolo piccolo appena nato e si raccontano. Raccontano di questo nuovo arrivo, della loro emozione nello scoprire nuove risorse di accudimento come quelle in cui mi chiedono di essere accompagnati.
E poi di un bambino o di una bimba “grande” che li aspetta a casa o che è a scuola.
E a questo punto il clima sempre si rabbuia un po’.
Perchè tanti di questi meravigliosi genitori si sentono un po’ in colpa per non aver dato al primo quello che stanno dando al più piccolo.
“Se avessi saputo, se avessi immaginato…quante cose gli ho negato, quanto l’ho tenuto distante…se solo potessi tornare indietro…”
Non si può tornare indietro ma si può non perdere più tempo, ecco la buona notizia.
“non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice” c’era scritto su un muro in via Bolognese, qui a Firenze. Ogni volta che ci passavo davanti sorridevo pensando a me, a loro, a quei genitori malinconici.
La buona, la buonissima notizia è che ci sono un sacco di cose da fare e che non è mai tardi.
Non è tardi per quel bambino “grande”, non è tardi nemmeno per quell’altro bambino, quello ancora più grande, che è nascosto in fondo al cuore di ogni adulto.
Il contatto ha un grande asso nella manica: il contatto è relazione. Il contatto prende e dà in un continuo scambio. Il contatto non è un oggetto che o l’hai avuto o non lo potrai mai avere. Il contatto si nutre e nutre a sua volta la resilienza.
Basta avere pazienza e spogliarsi.
Certo dei vestiti, perchè la pelle respiri, finalmente.
E poi dei sensi di colpa, che non servono a nessuno e sono solo pietre in tasca (che poi, le tasche…o non c’eravamo spogliati?)
Infine dei giudizi, nostri o altrui, che legano i nostri polsi, chiudono a pugno le nostre
belle mani.
Piano, piano, rispettare i limiti ed onorarli è forse il primo passo per superarli.
Senza fretta, il contatto ha bisogno di tempo e di delicatezza, di movimenti lenti, di respiri profondi, di pause piene soltanto di pazienza e silenzio.
Ascoltare il silenzio, perchè è lì che si percepisce il linguaggio segreto della pelle.
Ricordare che non aver
dato, allo stesso tempo significa – quando si parla di contatto – non aver ricevuto. E quindi provare tenerezza , ancorché malinconica, non solo per quel bambino grande ma anche per noi. E dalla tenerezza ripartire con piccoli passi: una filastrocca “camminata” sul palmo della mano, il gioco dei passi
degli animali sulla schiena, un sole sulla pancia, un massaggio alle spalle dopo una giornata di scuola. Chi abbiamo davanti? un bambino ancora piccolo, un bambino giàgrande e molto attivo, un ragazzino, un adolescente, un adulto irrigidito da troppe occasioni mancate?
Senza cercare di scambiarsi ciò che è passato, abbiamo la grande opportunità di iniziare a colmare le lacune con un modo sempre nuovo, sempre attuale di toccare, accarezzare, abbracciare, baciare, massaggiare.
Ancora ascoltare, individuare i limiti, guardar loro con amore. Con amore, piano piano, superarli.
Il dialogo più bello che a volte apre lo scrigno anche delle parole giuste.
Fidarsi della pelle. E’ il primo organo che si forma in un embrione. E’ il più importante e forse il più sottovalutato, come lo sono i grandi geni che parlano di cose troppo grandi per gli altri.
(Veronica)
Un consiglio di lettura utile, con tante idee di giochetti e di massaggi anche per i bimbi più grandi, può essere un bel libretto edito da RED “Il Libro delle Coccole”
10 maggio…festa della mamma
10 maggio…festa della mamma: eppure nessun post il giorno stesso per fare gli auguri alle mamme? e com’è possibile su un blog come questo?
Bè perché per questa Festa della Mamma, il mondo virtuale era un po’ distante…e Puro Contatto era in mezzo a mamme in carne, ossa e fascia!
Ma mai è tardi per rendere un piccolo omaggio alle mamme, perciò, senza troppi svolazzi, il mio abbraccio virtuale a tutte le mamme del mondo: quelle coi bimbi nella pancia, quelle coi bimbi nel cuore, quelle coi bimbi tra le braccia o per la mano, quelle coi bimbi che non sono già più bimbi ma genitori a loro volta, quelle a due o quattro zampe, con le pinne e con le ali. Alle mamme per scelta, alle mamme per caso, alle mamme che, guardando i loro bimbi, sono costrette a ricordare un grande dolore, alle mamme giovani, alle mamme non più giovani, alle mamme circondate da una bella “tribù” e alle mamme sole.
Un abbraccio a tutte, per il nostro giorno, ma un giorno dopo…perché il nostro giorno sia ogni giorno!
(Veronica)
ciò che viene da dentro, ciò che viene da fuori (su babywearing e bisogni indotti)
Portare i bambini è una pratica meravigliosa.
Non solo perchè è qualcosa di comodo, dolce e sicuro. Ma perchè risveglia negli adulti delle meravigliose competenze: la capacità di accogliere, di osservare, di leggere i segnali, di sentire i bisogni ed i cambiamenti.
Ai bambini lascia la possibilità di esercitare e di non perdere le loro competenze naturali di mammiferi portati attivi e la potenza incredibile del linguaggio tattile che loro conoscono bene per istinto.
Ci offre l’occasione di sperimentarci nella manualità, nella sensibilità di riconoscere se il tessuto è ben teso, se la legatura è sicura, se siamo comodi. Una riflessione importante su noi stessi, sulle sensazioni che il corpo ci rimanda.
Come nell’allattamento e come nel massaggio per portare bene è necessario ascoltarsi, darsi tempo, costruire la pazienza con noi stessi, rispettare i segnali dei bambini e averne dei nostri riconoscibili che ci guidino per la strada giusta.
É necessario fermarsi, a volte ripetere, a volte ripartire da capo, a volte anche desistere per riprovare poi in un altro momento.
É necessario staccarsi un pochino dai tempi stretti della vita normale, a volte è necessario rinunciare apparentemente alla praticità, investire tempo ed energie nell’apprendere la tecnica giusta, nel sentirla bene, nel sentirsi bene.
E soprattutto pensare intensamente che la giusta via è nelle nostre mani, che noi siamo in grado di ottenere un ottimo risultato e che quel risultato dipende per lo più da noi stessi.
Essere genitori oggi significa andare in contro ad una marea di pregiudizi e di giudizi. Significa andare incontro ad un numero incredibile di persone, dalle più diverse formazioni e specializzazioni, che emettono sentenze con una facilità disarmante, che danno ricette, metodi, soluzioni, che progettano oggetti per “risolvere” le difficoltà.
Tutta la società porta i genitori a pensare che la soluzione alle difficoltà dell’essere genitori sia “fuori”.
Per portare la pace, il ciuccio.
Per dormire, libri e manuali.
Per educare, metodi e regole.
Per allattare, paracapezzoli e cuscini specifici quando non sono biberon e simili.
Per tranquillizzare e contenere, complicati involtini di tessuto.
Per spiegare, sindromi sempre nuove.
Per portare i bambini la fascia esclusiva, “super-sostenitiva auto-legante”.
Non che queste cose non servano in assoluto. Possono servire in determinati casi, in occasioni particolari o anche soltanto per adeguare l’esperienza della genitorialità agli inevitabili ritmi della vita quotidiana.
Ma non sono indispensabili.
Concentriamoci su noi stessi, sulla forza della nostra natura e del nostro amore.
Usiamo gli strumenti, non diventiamone schiavi.
Per ognuno degli scopi per cui inventano oggetti, la Natura ci ha fornito le soluzioni. Nella nostra pelle, nelle nostre braccia, nei seni, nella semplicità dello stare vicini, dello stare in ascolto.
Perciò, tornando al portare: per portare i nostri bambini in primis abbiamo le braccia. E quello sono lo strumento più importante.
Poi abbiamo le risorse dentro di noi: la capacità di gestire un tessuto, di legarlo al meglio. Magari qualcuno ci insegna o attraverso un libretto di istruzioni, o un video o meglio ancora dal vivo in una consulenza.
Ma apprendere una tecnica significa risvegliare e sviluppare capacità esistenti dentro di noi. Non significa appoggiarsi a qualcosa che viene da fuori. Per questo una brava consulente, o istruttrice che sia, non crea dipendenza nei “suoi” genitori ma anzi li spinge a sperimentarsi, li sostiene nel mettersi alla prova.
Un buon supporto è fondamentale perchè tendiamo giustamente ad una buona qualità del portare per noi e per i nostri figli. Ma un buon supporto non è necessariamente un supporto molto costoso né molto elaborato. E la grande differenza la fanno, come sempre, le mani. Le mani che annodano, che legano.
Se ci sentiamo scomodi, se sentiamo i nostri bimbi a disagio, prima di pensare di aver bisogno di comprare altro soffermiamoci ad ascoltare cosa c’è che non va, a fare attenzione alla tecnica con cui abbiamo legato, al rispetto delle “regole d’oro” del portare in sicurezza e correttezza.
La risposta quasi sempre è dentro di noi, è nelle nostre capacità e nel nostro impegno, nella nostra pazienza, nella nostra accuratezza.
Se abbiamo la forza ed il coraggio di portare verso l’interno ogni questione, vi troveremo ogni risposta e la nostra forza ed il nostro coraggio saranno sempre un po’ più saldi.
Ogni volta che cerchiamo la risposta fuori siamo un po’ più dipendenti, un po’ più fragili.
No.
Non è vero che per portare un bimbo grande per forza serva una fascia con la canapa o con la grammatura di un tappeto persiano.
Serve magari una legatura ben fatta e a più strati di tessuto. Le legature veloci per cui usare le suddette fasce-tappeto sono comunque indicate per tempi o percorsi brevi. Un bimbo grande portato a lungo in una legatura monostrato ancorché fatta con il tappeto di Aladino, finirà per sovraccaricare troppo il genitore e per non star comodo nemmeno lui. Cosa che non accadrà con una legatura triplo sostegno ben fatta anche se eseguita con una fascia a grammatura medio bassa.
Non è vero che una fascia per poter portare i nostri bambini debba costare almeno 100€.
Oggi sul mercato ci sono soluzioni lowcost che offrono qualità discrete quando addirittura non ottime. Così come ci sono proposte economicamente molto impegnative che non competono con le cosiddette “low cost” in quanto a certificazioni su provenienza e qualità di tessile e colorazioni.
Non è vero che servono tanti supporti.
Anzi, spesso i bambini che crescono con una sola fascia ne fanno un oggetto del cuore, carico di ricordi belli e sensazioni positive. Ed è bello pensare che ogni bambini abbia una fascia che ha condiviso per un po’ con la sua mamma e che gli servirà a sua volta per portare i suoi figli (o mal che vada per dormirci in campagna).
Bisogna imparare, mettersi in gioco, darsi tempo, fallire e riprovare. Bisogna investire energie e minuti preziosi. Prendere il ritmo in sintonia con i piccoli. E poi uscire e pure comprare una fascia nuova ma come si compra un vestito sfizioso: perchè ci va e ci piace non perchè “ne abbiamo bisogno”.
Quello di cui abbiamo bisogno, davvero bisogno, è di ri-scoprire il nostro grande potere, la nostra immensa potenzialità.
Quello di cui hanno bisogno i nostri bambini è di amore, di un paio di braccia, di seni da succhiare.
(Veronica)