Categoria: parola di mamma e papà…
Maternità e sindrome del derby
Non so se sia lo stesso anche altrove ma qui in Italia sembra che tutto sia condizionato da una sorta di inarrestabile sindrome del derby. O con me, o contro di me. Bianco o nero.
Sono ormai 4 anni che frequento mamme in consultori, corsi pre e post parto, ludoteche, gruppi sui social network e via dicendo.
Sembra che qualsiasi esperienza di maternità debba essere incanalata, rapportabile ad una sola scelta di maternage, ligia e perfetta secondo i canoni della strada prescelta.
O allatti per anni o sei contraria all’allattamento.
O ti tieni i figli nel letto a scapito pure del marito o pratichi Estevill.
O hai speso 1400€ in un trio all’avanguardia o altrettanti in fasce e marsupi ergonomici.
O sei “ad alto contatto” o sei “a basso contatto”.
E sembra così importante appartenere ad una squadra che per farlo le mamme si informano, si testano nel percorso, chiedono conferme e pareri, non si risparmiano attività di propaganda. Che siano dell’uno o dell’altro team. Per essere riconosciute e per potersi riconoscere in una delle due squadre, tante mamme e tante famiglie compiono scelte “dettate” da regole e opinioni altrui che non appartengono loro.
“Ma sarò abbastanza accogliente?”
“Ma sarò abbastanza severa?”
Ed è forse questa l’origine dell’infelicità così diffusa.
Qualsiasi scelta che facciamo per noi ed i nostri figli dovrebbe assomigliarci. Dovrebbe rispecchiare le nostre caratteristiche, dovrebbe rispettare i nostri bisogni fondamentali. In una parola, dovrebbe essere naturale. E non necessariamente nel senso più mammifero del termine: ogni mamma dovrebbe saper leggere, sì, i bisogni primari del proprio figlio, ma dovrebbe anche comportarsi secondo ciò che si sente di poter/dover fare insieme al proprio bambino.
Ed in questo dovrebbe essere comunque supportata. Perché qualsiasi mamma che farà una scelta non consapevole e non adeguata a se stessa come essere umano, e come donna in particolare, sarà una mamma affaticata e una donna infelice e manderà costantemente messaggi contrastanti ai propri figli.
Il primo e più importante contatto che bisogna curare è quello con noi stesse. Approfittare della maternità per chiarire definitivamente a noi stesse come siamo, chi siamo, ciò che vogliamo o possiamo fare.
Assumiamo un atteggiamento schietto e sincero, proviamo a sostituire il concetto di “sacrificio” con quello di “condivisione”. Mettiamo dei punti fermi laddove stanno i nostri valori irrinunciabili e degli obiettivi laddove sentiamo di dover crescere, migliorare, cambiare.
Ogni bambino è felice della sua mamma nel momento in cui percepisce che lei è davvero così come gli si presenta, che i suoi comportamenti sono armoniosi con la sua personalità, che lei lo ama e fa di tutto quanto in suo potere per trasmettergli questo amore.
Purocontatto vuole essere il luogo in cui si accolgono le mamme. In cui si trovano informazioni ma allo stesso tempo si da valore alle differenze e – soprattutto – alla consapevolezza delle proprie scelte.
Questo breve appello alla semplicità è scaturito grazie a due amiche. Sono due persone molto diverse tra loro e molto diverse da me. Ma abbiamo tutte e tre delle cose in comune.
La cosa più bella che, credo, condividiamo, è l’essere esattamente come siamo in ogni ruolo. Incluso quello di mamme.
Una di loro, quando le proposi di far parte dello staff di purocontatto, mi disse “Ma io non son sicura di essere una mamma da purocontatto: ho portato ma ho usato anche tanto il passeggino, ho allattato ma mi son pure stufata, e non ci penso nemmeno a dormire tutti insieme”.
In verità non esiste la mamma da purocontatto. O meglio, esiste: è ogni mamma che è o che vuole essere in contatto con se stessa prima di tutto. Ogni mamma che si rispetta, che rispetta i suoi limiti e valorizza i suoi pregi. Che rispetta i propri tempi e cerca il punto d’incontro con quelli del suo bambino. Quella mia amica è una delle mamme più “purocontatto” che io conosca.
L’altra amica mi chiama affettuosamente “l’extracomunitaria” quando mi vede con le mie fasce ed i miei figli attaccati al seno. Una volta mi disse “Sono proprio fortunati i tuoi bimbi ad avere una mamma così mamma come te”. Ed invece il suo meraviglioso, geniale, amatissimo bambino se ne uscì al tempo con un “Mamma sai, prima di nascere c’erano un sacco di mamme in fila davanti a me. Ed io ho scelto te”.
Un bambino fortunato, né più né meno dei miei.
Quello che siamo viene dalla storia della nostra società, dalla storia del nostro Paese, delle nostre città, della nostra famiglia. Dalla nostra storia.
Sia quel che sia, il “naturale”, il “fisiologico”, devono per forza confrontarsi con quello che noi siamo: è importante avere le giuste informazioni ed il giusto sostegno per poter lavorare su noi stesse. Chiarire innanzitutto come e dove possono arrivare le nostre forze, la nostra volontà, il nostro piacere. E poi, forse, riflettere su cosa abbiamo perso, cosa possiamo recuperare, cosa ci ha portato fin qui.
Roma, purtroppo, non è stata fatta in un giorno. Né in un giorno può essere cancellata.
Stiamo in contatto. Confrontiamoci a cuore aperto e senza sindrome del derby. C’è possibilità di crescere per tutte noi.
Dall’accudimento alla relazione
Quando si parla di neonati, ci viene immediatamente in testa l’accudimento: il cuore e l’immaginazione si riempiono di tenerezza e si materializzano in noi immagini emozionanti di grandi mani che si occupano di piccoli miracoli della Natura e li nutrono, li spogliano, li puliscono, li vestono, li ninnano, li trasportano da un luogo ad un altro e così via.
Sicuramente i neonati hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro e li aiuti a svolgere al meglio le loro funzioni vitali almeno per un buon periodo di tempo: tra la nascita e l’acquisizione dell’indipendenza (o semi – indipendenza) psico-motoria. Ma quello che il concetto di accudimento trascura o porta a dimenticare è che i neonati hanno numerose competenze fondamentali all’assolvimento di quelle funzioni di cui tendiamo a ritenere gli adulti gli unici garanti.
La capacità di suzione, i riflessi motori, i codici comunicativi, i piccoli gesti, la grande sensibilità tattile e olfattiva. Senza queste competenze qualsiasi affanno per “accudire” i neonati sarebbe vano. E quindi perchè non provare a cambiare punto di vista? Perchè non provare a vederci non dispensatori di vita e di quotidianità ma compagni di viaggio? Perchè non provare a trovare una via comunicativa che dia origine ad una relazione profonda e collaborativa? Strumenti di questo percorso di “rilvoluzione copernicana” del maternage possono essere molti. L’allattamento al seno a richiesta, il portare i bimbi addosso, il massaggio (e le coccole in generale). Quando allattiamo un bambino a richiesta impariamo a leggere i suoi segnali poiché chi allatta sa che attaccare correttamente un neonato piangente è faticoso e difficile e che il pianto è solo l’estremo tentativo di comunicazione nel caso che i codici precedenti siano passati inosservati. La piccola lingua lambisce le labbra, una manina arriva alla bocca, l’altra perlustra lo spazio intorno alla ricerca del seno di mamma. La mamma si stringe il piccolo al seno e glielo offre. Quello che è successo è che il codice comunicativo si è dimostrato efficace: il neonato sa, adesso, di avere una risorsa che funziona e di aver stabilito un contatto con la mamma. E sa che la sua mamma rispetta e si fida dei suoi ritmi, dei suoi bisogni. Non è più un adulto che determina il nutrimento di un neonato ma una coppia di persone che si ama alla follia che comunica le proprie necessità, le proprie risorse, la propria disponibilità ed apertura ad accogliere.
Quando portiamo un bambino addosso, che sia in braccio o con le fasce, non lo trasportiamo semplicemente da un luogo ad un altro. Gli comunichiamo che abbiamo coscienza che le sue mani sono forti, che sappiamo che le dita sanno stringersi, che le caviglie sanno circondare il genitore, che il suo cervello è in grado di leggere i movimenti del nostro corpo e di apprenderli. Gli facciamo capire che non è solo, che il suo bisogno di affrontare la realtà ancora attraverso un filtro è comprensibile ed accettabile. Il messaggio che gli diamo è che si trova in un luogo sicuro dove le sue competenze gli possono permettere di sviluppare la sua idea di realtà ed il miglior modo per approcciarla.
Il massaggio al bambino – se la lingua me lo permettesse direi “il massaggio con il bambino” – è un momento speciale. Vimala Mc Clure, fondatrice dello IAIM (AIMI in Italia) ha introdotto un dettaglio meravigliosamente forte: la richiesta di permesso. Prima di iniziare il massaggio, il genitore chiede al proprio piccolo il permesso di iniziare quell’esperienza comune, quel viaggio insieme che è il massaggio. E già questo significa riconoscere al neonato una completezza, una dignità, una sacralità rare e preziose. Tanto rare che spesso i genitori si sentono ridicoli a farlo. Non è affatto una domanda retorica: il piccolo ci risponderà con il linguaggio che conosce bene e che noi abbiamo piano piano dimenticato, il linguaggio del corpo. Ci risponderà sorridendo e agitando serenamente le manine verso di noi oppure chiudendosi a riccio e protestando. E noi piano, piano impareremo a capirlo confermandogli che il suo modo di comunicare funziona, che rispettiamo i suoi tempi ed i suoi momenti, che vogliamo fare qualcosa con lui ed abbiamo bisogno della sua complicità, che siamo in contatto.
Si stabilisce la comunicazione e si cresce insieme. I piccoli imparando il linguaggio delle parole, i grandi riscoprendo la potenza della pelle. Entrambi competenti, in un’unica tensione verso il migliorarsi.
Proviamo a cambiare punto di vista: quando è successo in astronomia in una sola occhiata l’uomo ha infranto 7 cieli di cristallo e s’è lanciato verso l’infinito.